Dialoghi con Pavese - Tommaso Munari

Dialoghi con Pavese: Tommaso Munari

Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato il ricercatore Tommaso Munari, autore del saggio L’Italia dei libri. L’editoria in dieci storie.

Tommaso Munari è dottore di ricerca in Storia e civiltà e si occupa di storia dell’editoria, soprattutto italiana. La casa editrice Einaudi è stata al centro di alcuni dei suoi studi più importanti, come i due preziossissimi volumi dei Verbali del mercoledì (2011 e 2013), la raccolta Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi (2015), che ne elenca anche uno di Pavese, e L’Einaudi in Europa (2016), che analizza come la casa editrice abbia sviluppato i propri contatti con altri editori europei negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Il suo ultimo libro è L’Italia dei libri. L’editoria in dieci storie, uscito nel 2024

Nel tuo ultimo libro, L’Italia dei libri. L’editoria in dieci storie, racconti la storia dell’Italia unita – cronologicamente, proprio a partire da pochi anni dopo l’Unità – fino ai nostri giorni attraverso le vite di dieci case editrici. In base a quali criteri le hai scelte?

Diciamo che ci sono dieci attori protagonisti – Zanichelli, Treves, Bemporad, Hoepli, Laterza, Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Adelphi e Sellerio –, altrettanti non protagonisti – Pomba, Le Monnier, Barbèra, Sonzogno, Salani, Macmillan, Gallimard, Bompiani, Maspero, Boringhieri – e un numero significativo di comparse, dalla casa Ricordi, editrice di spartiti e libretti, al Touring Club italiano, specializzato in guide turistiche, per citare le due più eccentriche. Questo libro, hai ragione, è una storia del nostro Paese vista attraverso la lente dell’editoria, ma è anche la storia di un mestiere, quello dell’editore, che attorno alla metà dell’Ottocento trovò un proprio spazio fra quello del tipografo e quello del libraio. E il modo più semplice per raccontare questo mestiere mi è parso quello di procedere per casi. La scelta è stata dettata anche da una ragione didattica dal momento che l’idea di questo libro è nata da un corso universitario: da un lato volevo ricostruire le linee della storia dell’editoria italiana, dall’altro raccontare questa storia partendo dagli archivi, anche per sfuggire al rischio “elenco telefonico” connaturato a libri come questo. Il risultato è stato inevitabilmente un compromesso.

Nel libro racconti che questi editori contribuirono a unificare il Paese: avevano bisogno di lettori, dunque incrementarono con libri “popolari” le quote di lettori. Sembra però che il tuo campo di studi, basato sull’analisi dei dati di fatto, venga tenuto in secondo piano rispetto ad altri, più “astratti”: studiamo grandi autori e libri canonici senza chiederci chi li leggesse, ovvero se raggiungessero il loro scopo. Mi sbaglio? 

Il fatto è che la questione della lettura è tanto importante quanto inafferrabile: chi erano i lettori? Cosa leggevano? Come leggevano? Sono domande alle quali non è facile rispondere perché le fonti che documentano questo processo sono poche, soprattutto andando indietro nel tempo. Per quanto riguarda l’Ottocento e il Novecento, spesso possiamo risalire al numero di edizioni, ma non sempre a quello delle tirature e quasi mai a quello delle vendite. Nel libro ho fatto quello che ho potuto. Per esempio, ho studiato i primi copialettere della libreria Laterza che elencano gli ordini effettuati da Giovanni Laterza per conto dei suoi clienti: molti manuali scolastici, diversi romanzi per ragazzi, alcuni prontuari di legge, poche opere di letteratura, salvo quelle delle tre “corone” Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Ma si tratta di un angolo d’Italia in uno spicchio di secolo. Un’altra fonte che ho utilizzato per documentare questo processo sono le lettere inviate a Pellegrino Artusi dalle sue lettrici, le quali gli scrivevano per ordinare una copia della Scienza in cucina o avere delucidazioni su una ricetta o sapere dove procurarsi un certo utensile. Anche queste lettere, come i registri della Laterza, offrono un spaccato prezioso sul mondo della lettura, ma, ripeto, è un mondo che possiamo conoscere solo per frammenti o in modo congetturale. Ciò non toglie che, nei limiti del possibile, la letteratura dovrebbe essere studiata anche nei suoi riflessi sociali ed economici.

Nei tuoi studi sulla storia del libro e dell’editoria hai dedicato molta attenzione alla casa editrice Einaudi, che mi sembra sia stata sempre una casa editrice imperniata sui grandi nomi singoli (Giulio Einaudi, Pavese, Ginzburg, Vittorini, Ponchiroli, eccetera) piuttosto che su una squadra. È così? Cosa differenzia Einaudi rispetto agli altri editori italiani?

Innanzitutto va detto che l’Einaudi non è sempre stata la casa editrice delle riunioni del “mercoledì”. Inizialmente il suo catalogo fu plasmato da Luigi Einaudi, padre di Giulio, che impostò la prima collana (Problemi contemporanei) e la alimentò di titoli (tutti di economia politica). Poi arrivarono Leone Ginzburg e Cesare Pavese, che vi introdussero la storia (Biblioteca di cultura storica) e la letteratura (Narratori stranieri tradotti), mentre Einaudi si occupava soprattutto della saggistica più varia (Saggi). Il gruppo cominciò ad allargarsi nei primi anni Quaranta con l’ingresso di Muscetta, Alicata e Pintor, e poco dopo di Balbo, Bobbio, Giolitti, Mila e Venturi, fino a diventare, alla fine di quel decennio, talmente esteso da rendere necessaria l’organizzazione di riunioni settimanali. Di certo questo “decidere in gruppo” è stato uno dei tratti distintivi della casa editrice, ma credo che la sua caratteristica principale sia stata il “pensare per collane”, che significa da un lato costruire il catalogo come una grande biblioteca, dall’altro concepire i libri come parti di un discorso. 

Pavese ha rappresentato per Einaudi la fase iniziale dell’azienda, quando la casa editrice si apriva a un respiro internazionale ma rimaneva semi-artigianale e piemontese. Qual è stato il ruolo principale di Pavese dentro l’Einaudi? Pensi che avrebbe potuto ancora contribuire all’azienda in un mondo che, a partire dagli anni ’60, si sarebbe completamente trasformato rispetto a quello in cui Pavese era nato?

È difficile fare la storia con i se. Di certo quando Pavese morì si creò un vuoto all’interno dell’Einaudi, ma non tanto ideativo quanto organizzativo. Natalia Ginzburg scrisse che Pavese “aveva in mano tutto”; io aggiungerei che sapeva fare tutto. Come dimostra il suo epistolario, sapeva trattare con gli autori, rivedere una traduzione, correggere le bozze, scegliere un titolo, scrivere un risvolto, parlare con i tipografi. Sapeva come si trasforma un testo in un libro, e come lo si lancia. Questa sua competenza ad ampio raggio ne fece una figura insostituibile nell’Einaudi artigianale degli anni Quaranta. Di lì a poco, è vero, la casa editrice si sarebbe trasformata in un’impresa più strutturata e l’editoria in un’industria più complessa, ma Pavese sarebbe inevitabilmente cambiato con loro, anche se non possiamo sapere come. Resta il fatto che lasciò all’Einaudi un patrimonio d’idee ed ebbe almeno un erede di talento: Italo Calvino.

Pensi che la distinzione tra editori “puri” e “commerciali” abbia senso per una categoria che deve necessariamente combinare le esigenze dello spirito con quelle del mercato? 

Sono d’accordo: quella fra editoria di cultura ed editoria di consumo mi sembra una distinzione ormai frusta e comunque troppo astratta. Una casa editrice è pur sempre un’impresa che deve confrontarsi con il mercato, a volte inventandolo, altre inseguendolo. Certo ci possono essere editori più attenti di altri alla coerenza del proprio catalogo e alla qualità dei singoli libri, ma alla fine sono i lettori a consacrare il successo o l’insuccesso delle loro scelte. Negli ultimi decenni si è invece sviluppata un’editoria di tipo accademico che risponde a logiche diverse e guarda non tanto ai lettori quanto agli autori, i quali pubblicano i loro libri con il contributo di istituzioni culturali o dipartimenti universitari. In un’ottica di questo tipo, che un volume venda oppure no ha un’importanza del tutto relativa

“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Settantatré anni dopo il suicidio di Pavese, secondo te abbiamo ancora bisogno di lui come uomo o come intellettuale? Perché

L’editoria ne avrebbe bisogno come esempio, oltre che di dedizione al lavoro, di curiosità intellettuale. La Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici che ideò nel 1945 resta una delle collane più importanti del Novecento per coerenza e originalità. In un’epoca ancora dominata dalla cultura crociana, Pavese non solo comprese la novità culturale di autori come Georges Dumézil, Mircea Eliade, Leo Frobenius, Károly Kerényi e Bronislaw Malinowski, ma intuì la loro longevità editoriale. A distanza di settant’anni dalla loro prima edizione, un numero consistente di titoli pubblicati nella “collana viola” continua a essere ristampato, segno evidente del suo fiuto editoriale.

Intervista a cura di Iuri Moscardi
 
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