Alberto Sinigaglia - Premio Pavese 2019

Premio Pavese 2020 | Alberto Sinigaglia

Attesa, silenzio, ascolto: parte da qui la conversazione tra Pierluigi Vaccaneo, direttore della Fondazione, e Alberto Sinigaglia, presidente della giuria del Premio Pavese e dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte.

“È una terra che attende e non dice parola”. Questa frase, tratta dalle poesie di Cesare Pavese, sembra dare il senso a questo periodo sospeso, in cui siamo chiamati a recuperare il tempo dimenticato dell’ascolto. Possono la letteratura in generale e il messaggio pavesiano in particolare riportarci a quel tempo, a riscoprire appunto l’attesa, l’essenza della nostra umanità?

La pandemia ci fa vivere un’attesa inaspettata, un nuovo passaggio della storia che sarà studiato e raccontato per la sua complessità e per le conseguenze che avrà sulla nostra vita. Uno dei più noti è il passaggio del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra Promessa. Fatto di tanti passaggi: dalla schiavitù alla libertà, dall’una all’altra sponda del Mar Rosso, da quell’approdo desertico alla Palestina. Pasah, passaggio, la Pasqua che Gesù e i discepoli, da buoni ebrei, ricordarono prima di diventare protagonisti di un’altra Pasqua, di un altro passaggio, di un’altra attesa: dalla morte alla resurrezione. Difficile abitare l’attesa con profitto mentale in un tempo in cui siamo immersi nel vociare di comunicazioni frenetiche: cifre di malati e di morti, ordinanze, polemiche, festival di luoghi comuni e pensierini. Ma chi “non dice parola” – come nel verso di Pavese – in questa attesa così lunga, paurosa, faticosa, drammatica per i medici e gli infermieri caduti, per i lutti di molte famiglie, sicuramente ne uscirà mutato, maturato, arricchito. Specie se avrà combattuto la noia o le chiacchiere con qualche bella lettura o rilettura.

Dal 2020, il Premio Pavese aggiunge la narrativa alle tre sezioni della nuova formula lanciata lo scorso anno (editoria, saggistica e traduzione). La poesia sarà la prossima categoria per un Premio che sta cercando, a piccoli passi, di trovare una nuova identità seguendo sempre fedelmente il messaggio pavesiano?

La Fondazione Cesare Pavese dà a Santo Stefano Belbo un posto centrale nella promozione culturale e turistica delle Langhe, ma vuole assumerne uno anche nella cultura nazionale, adeguato al grande nome che porta. Per questo il Premio Pavese, fondato e fatto crescere con grande passione, ha assunto dall’anno scorso una formula che lo distingue da altri premi letterari, tra i quali rischiava di confondersi: sceglie personalità che con il loro prestigio siano simbolo di tutti i ruoli dei quali Pavese è stato un protagonista. Quest’anno alla traduzione, all’editoria, alla saggistica si aggiungerà la narrativa. L’anno prossimo si completerà con la poesia. 

Editoria, saggistica, traduzione, narrativa e poesia sono le sfaccettature di un percorso intellettuale intenso e profondo che lo scrittore di Santo Stefano Belbo ha intrapreso con impegno, consapevolezza e coerenza. Pavese è stato anche giornalista?

Sì, Pavese è stato anche giornalista. Finita la guerra e finito il fascismo, la ritrovata libertà portò alla rinascita di alcuni giornali e alla nascita di nuovi. Alla redazione torinese dell’Unità si trovarono a lavorare o a collaborare gli scrittori Cesare Pavese, Elio Vittorini, Italo Calvino; il musicologo Massimo Mila, traduttore di Siddharta,  tra i fondatori della Einaudi e intimo amico di Pavese; gli storico Paolo Spriano e Raimondo Luraghi, il filosofo Ludovico Geymonat, Davide Lajolo che sarebbe diventato direttore del giornale, Raf Vallone che ha fatto il calciatore e sarebbe rimasto famoso come attore cinematografico di Riso amaro e Uno sguardo dal ponte. Sarà il caso di aggiungere in futuro anche un premio in memoria di Pavese giornalista?

In un tempo in cui le certezze sembrano svanire e ogni giorno è un’affannosa rincorsa alla notizia, alla scoperta, alla novità come può l’informazione venire in soccorso di una comunità vittima, oltre che di un’epidemia, anche di una sorta di “infodemia”, ovvero di un massiccio contagio da fake news e cattiva informazione?

Nell’infodemia, nella tempesta di notizie vere e false, sta avvenendo un ritorno alle edicole, ancora lieve ma netto e con tendenza positiva.  Eccezionali i dati d’ascolto dei telegiornali della sera. Buona la tenuta della radio, se si tiene conto che gran parte degli abituali ascoltatori automobilisti sono costretti a casa. Segno che la paura, l’angoscia, il bisogno di sapere riporta a fidarsi di chi fa informazione per mestiere. Un’occasione che il giornalismo non deve farsi sfuggire per tornare a essere il garante di una società libera e informata, il salvagente sicuro, la maniglia alla quale aggrapparsi per non annegare nel mare di chiacchiere, di bugie, di falsità confezionate nella perenne campagna elettorale che priva il paese dell’unità necessaria in una crisi così vasta e così lunga.

Leggiamo di persone che faticano a ritagliarsi la serenità d’animo per la lettura o la fruizione di un contenuto culturale. Qual è il ruolo dell’intellettuale in questo periodo e come può la cultura mantenere il suo ruolo di guida del singolo e della comunità?

Intellettuali sono gli scienziati e i medici che siamo tenuti ad ascoltare e che, per fortuna, anche i governanti ascoltano prima delle decisioni. La domanda allude agli altri: scrittori, filosofi, giuristi, storici del pensiero politico. E credo sottintenda una domanda più imbarazzante: perché tanto silenzio anche prima della pandemia? Forse è anche un po’ colpa del giornalismo che non va a cercarli – stavo per dire: non va a stanarli – , pago delle firme abituali. Mi sembra tuttavia che i giornali abbiano fatto un buon lavoro proprio con gli scrittori: per esempio Paolo Giordano, uscito tempestivamente da Einaudi con Contagio, sul Corriere della Sera e in tv dialogando a Otto e mezzo con Lilly Gruber è intervenuto con idee e proposte sulla scuola, sugli esami di maturità. Certo è necessario che la cultura abbia un ruolo di guida del singolo e della comunità ben oltre i momenti di crisi e può farlo solo in alleanza con il giornalismo. Ed è perciò urgente tornare a una più alta idea di cultura e a una più alta idea di giornalismo.    

A questo proposito, che cosa stai leggendo in questo periodo?

Più s’allunga il tempo libero da incontri e viaggi, più crescono le tentazioni. Insomma, peggioro l’abitudine a letture disordinate. Mi sono trovato davanti agli occhi, in pochi giorni, tre libri che da tempo dovevo leggere: Luca Ricolfi con La società signorile di massa (La Nave di Teseo),  Adriano Prosperi con Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento (Einaudi), Gian Arturo Ferrari con Ragazzo italiano. Diversamente bellissimi. Intanto ritrovo Arthur Miller, Mark Rothko, il presidente Kennedy, Martin Luther King, Joan Baez, Leonard Bernstein e i Beatles nel libro al quale sto lavorando: un’antologia dei migliori incontri di Furio Colombo giornalista. Vi assicuro, un’ottima compagnia.

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