Scrittura e identità, mito e amicizia: un dialogo tra il nostro direttore e Marcello Fois, ospite del Pavese Festival il 5 settembre con l’interpretazione di alcuni dei Dialoghi con Leucò.



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A 70 anni dalla morte di Cesare Pavese che cosa rimane della parola dello scrittore? Quale il messaggio che possiamo seguire nella complessità dell’oggi?
Cesare Pavese è uno scrittore problematico nei temi e nei sistemi. Ha introdotto nella letteratura contemporanea un tratto istantaneo, una brevitas, una sintesi espansiva. Un dispositivo che rende formalmente asciutta una scrittura, al contrario, assai densa. Per definire il “pavesismo” direi che è proprio indispensabile fare riferimento a questo atteggiamento apparentemente “sbrigativo” che sottende alla sua scrittura. Un atteggiamento che oggi sentiamo assolutamente affine ai nostri tempi e ai nostri ritmi, ma che Pavese ha elaborato in tempi non sospetti decidendo di attingere ad un sentimento più scientifico che letterario, a quella tracotanza, a quell’ὕβϱις, che aveva coltivato fin da ragazzo e che lo rubricava come autore pochissimo incline agli stilemi, alla bella scrittura propriamente detta, alla bella pagina fine a sé stessa. Questo certo non ha significato, o non ha prodotto, una scrittura povera, ma fatalmente densissima, come un gas compresso che una volta liberato si espanda senza possibilità di controllo. La scrittura di Pavese si muove allo stesso modo: una volta innescata produce una reazione a catena, si disordina, diventa risonante e problematica. Ci aveva illuso di essere “spiccia” e alla portata e invece si rivela stratificata e raffinata. Direi che questa determinatezza, questa risolutezza nei metodi, che pure non determina né risolve nei significati, possa essere il segno della segreta complessità di Pavese.

Pavese utilizzò la potenza semantica del dialetto per arricchire la lingua che aveva costruito per la sua narrazione. Quanto conta nella scrittura rifarsi ad un universo di simboli e mondi come quello del dialetto che rispecchia anche l’identità di un territorio? 
La lingua madre è una delle strade attraverso le quali si può elaborare un sistema di comunicazione letteraria. Il sistema di Pavese è generare l’illusione della “spontaneità” contro l’ammissione dell’artificio. Il dialetto è il dito che seguiamo quando non vogliamo vedere la luna dell’elaborazione. È cioè il tratto attraverso il quale Pavese cerca di convincerci che possa esistere una scrittura istantanea, genetica, nel senso etimologico, cioè originaria. Si era laureato con una tesi su Walt Whitman, un poeta che su questa missione spontaneistica aveva fondato il suo capolavoro lirico. Pavese da quella esperienza aveva tratto la certezza che l’identità per uno scrittore, per un poeta, non è nient’altro che la scrittura e tutto quanto la determina come propria. La propria voce è il territorio su cui l’artista costruisce la propria casa. Se era vero per il rustico Whitman doveva essere vero anche per il provincialissimo Pavese. Il dialetto non è nient’altro che un mattone. Nessuno degli scrittori che rivendicano il localismo, e che lo elaborano con autorevolezza, vuole essere locale. E nessuno di questi infatti lo diventa. Il localismo è un accidente che capita a tutti quegli scrittori che vorrebbero disfarsene.

Dopo l’edizione del 2016 torni a Santo Stefano Belbo, insieme a Gavino Murgia, per il Pavese Festival continuando il percorso di interpretazione dei Dialoghi con Leucò, il testo su cui Pavese lasciò il suo ultimo messaggio prima di togliersi la vita. Qual è, da lettore e scrittore, il tuo dialogo con questo testo? 
I Dialoghi con Leucò rappresentano l’Ur-Pavese. Sono il testo più efficace per intendere l’ampiezza del progetto che lui ha ostinatamente perseguito. Intanto riguardano il confronto col Mito. E cioè quella domanda che ogni grande autore di tutti i tempi si è fatto rispetto alla propria capacità di permanere. Dunque di reggere l’impatto delle storie raccontate da sempre, dei temi affrontati da sempre, delle soluzioni da sempre ricercate. Il Mito sondato da Pavese è, ça va sans dire, tracotante, per niente umile. Come se lui non sentisse il peso specifico del materiale che andava a trattare, ma al contrario lo considerasse roba propria. I Dialoghi con Leucò sono per l’appunto dialoghi, dunque pareri, visioni, linguaggi, punti di vista che si alternano. Un’epica senza epica. Dove l’asciuttezza pavesiana si applica al massimo grado ad un sistema tutt’altro che asciutto o sintetico come la Mitologia. C’è una certa protervia a trattare in modo tanto drastico il nucleo stesso di tutte le narrazioni, ad affrontare a gamba tesa quelle tematiche che infinitamente ci corrispondono e quindi abbiamo rubricato come immortali, o classiche. Ma Pavese lo fa. Passando attraverso Esiodo piuttosto che Omero, ponendosi cioè in una condizione espressiva in minore. Dagli americani, che ama tanto e che ha contribuito a diffondere nel nostro Paese, ha appreso che si può affrontare l’umano con una certa dose di irriverenza. Come certi adolescenti che non riescano a tarare le proprie pulsioni. Le accelerazioni di Hemingway, le digressioni di Melville, le pulsioni di Whitman, gli fanno intravvedere un territorio in cui al Mito si pongono nuove domande. Una generazione di provinciali che non accettano l’afasia dell’accademia rispetto ai temi del Classico. Perciò questi Dialoghi sono attinenti all’umano, al Destino, alla ricerca della felicità, come sentimenti che valgono di per sé stessi e non devono essere necessariamente risolti. Tutto un materiale, questo, che l’Occidente aveva affrontato con una sorta di soggezione intangibile e che invece, se trattato senza troppo rispetto, risulta foriero di un’energia straordinaria, primitiva e contemporanea insieme. Questa “mancanza di soggezione” è la chiave che apre il mistero dei Dialoghi, ma è, in fondo la costante di tutta l’opera di Pavese.

Il Pavese Festival 2020 è guidato dalla frase “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre ad ogni istante”. Da dove dobbiamo ripartire, oggi, come cittadini e come collettività?
Pavese risponderebbe che non è compito degli scrittori e degli artisti in generale azzardarsi in una risposta a questa domanda. Gli intellettuali dovrebbero essere trattati in modo meno oracolare e assai più pratico. Magari sarebbe il caso di ribadire l’ovvio e cioè che la situazione in cui ci troviamo è frutto di scelte precise e collettive. Non siamo di fronte a un incidente imprevedibile, ma di fronte a un esito naturale. Non dobbiamo ripartire, ma continuare ad avanzare. Il sentimento della ripartenza è una forma di consolazione che serve a poco perché presuppone un tempo per rimetterci in condizione di sbagliare ancora esattamente come prima. La ripartenza è un azzeramento mentre a noi occorre Memoria. Occorre mettere in campo quei materiali, etici, culturali, spirituali, fisici che ci permettano di pensare soluzioni, di agire ridimensionamenti. Che ci mettano in moto piuttosto che raggelarci in un panico immobile. Si ricomincia costantemente, ma l’illusione della ripartenza autorizza l’oblio e quindi ci riduce costantemente allo stesso punto. Di partenza.

L’amicizia per Pavese era quella incondizionata con Giuseppe Scaglione, il Nuto de La luna e i falò, ed era quella dei protagonisti del Diavolo sulle colline e di Paesi tuoi. Nel tuo ultimo romanzo Pietro e Paolo si parla di amicizia. Che valore ha l’amicizia per Marcello Fois?
L’amicizia è un tema pavesiano in senso etimologico direi. È l’amore nell’accezione eroica, senza tornaconto. Questo è un tema che lega strettamente Pavese a Fenoglio. E Fenoglio è assolutamente cogente nell’economia del mio romanzo Pietro e Paolo. Personalmente ritengo l’amicizia uno dei sentimenti cardine della mia vita, ma anche uno dei più difficili da agire: ci possono essere tanti amori, ma le amicizie sono pochissime, per lo meno nel mio caso. Pietro e Paolo sono due amici che imparano il valore del sentimento che li lega, proprio quando pensano di averlo perduto. E questo ha a che fare strettamente con quanto io penso. L’amico è qualcuno che puoi persino trascurare, ma che non ti pone condizioni.

La Sardegna è una terra di scrittori, ricordo il nostro incontro attorno al bellissimo Il giorno del giudizio di Salvatore Satta. Quanto conta una Terra nella costruzione di uno scrittore?
Conta se non diventa una prigione, se non è un ceppo, una palla al piede, ma un passaporto. Non mi interessa un’identità che mi faccia superiore, ma un’identità che mi fornisca quel patrimonio attraverso il quale io possa affrontare il mondo sapendo da dove parto. La Sardegna per me è un lasciapassare, un passepartout, una certezza che mi libera dalla paura dell’altro. Pensa al miracolo di aver ambientato l’80% dei miei romanzi a casa mia senza che al lettore sembri strano, o “locale”, o problematico. In verità ogni autore ha un territorio, ma quando è autorevole, quel territorio si espande diventa uno spazio per abitare il mondo.

Consigliaci tre libri da leggere nella prossima estate. 
I tre testi che hanno formattato il pensiero letterario contemporaneo degli italiani: Promessi Sposi, Cuore, Pinocchio. Con una capatina verso l’Artusi e magari, in sottofondo, la Traviata, o Cavalleria Rusticana. Stupirebbe constatare quanto poco provinciali fossero questi fondatori di cui pensiamo di poter fare a meno. E nei confronti dei quali ci illudiamo di non avere debiti.