Si intitola Cicladi a/r la nuova mostra di Paolo Galetto allestita dall’artista nella chiesa dei SS. Giacomo e Cristoforo. A Santo Stefano Belbo dal 21 maggio al 19 giugno 2022.
Continua con una mostra in anteprima la collaborazione tra l’illustratore torinese Paolo Galetto e la Fondazione Cesare Pavese, avviata nel 2020 con l’ideazione dell’immagine guida per il 70° anniversario della morte di Cesare Pavese.
Cicladi a/r nasce da un viaggio nell’arcipelago greco che Paolo Galetto fece nel 2019. Trentuno acquerelli e tre grandi formati su lino dipinti in presa diretta sul finire dell’estate trasportano, in un suggestivo allestimento, le atmosfere dell’Egeo negli spazi essenziali e spogli della ex chiesa medievale dei SS. Giacomo e Cristoforo. Si apre così un dialogo senza tempo tra arte, Natura e letteratura all’insegna del Mito, come sottolinea il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo:
La mostra di Paolo Galetto è un viaggio nelle Cicladi, alla ricerca del segno e della parola. Il segno dell’arte di Paolo, elegante raffinata e bambina, e la parola della scrittura di Andrea Dusio, che guida in questo arcipelago. La Grecia è anche il luogo del Mito pavesiano che attraverso un dialogo diretto con la Natura e il paesaggio, rivela il passaggio, il guado che porta l’uomo di fronte alla propria verità. La mostra di Paolo Galetto è questo: segno, parola, eleganza, fanciullezza, Natura: Verità.
Cicladi a/r: La storia dell’occhio (di Andrea Dusio)
Nel settembre del 2019 Paolo Galetto ha compiuto un viaggio nelle Cicladi, fermandosi ad Antiparos, Paros e Amorgos. Durante quello che chiama “un viaggio d’amore” ha realizzato trentuno acquerelli e tre tele su lino. Tutti, tranne uno prodotto sull’aereo di ritorno, sono stati realizzati davanti al paesaggio, in strada. Il modo sintetico, anticonvenzionale, irregolare, che Galetto applica a questi watercolors non è inscritto in una cifra stilistica. Appartiene piuttosto al suo modo di procedere per urgenze, adattando il segno a quel che l’occhio registra, e al tempo di questa presa diretta. La luce, i riverberi, l’acqua, le condizioni del lavorare sotto il cielo, tra gli elementi, sembrano aver prodotto un’accelerazione, in qualche caso un’impennata, anche brusca, alla sua maniera, che appare qui lirica e scorbutica, un po’ com’è l’uomo, e il suo modo di amare il disegno, di essere fedele a esso continuamente tradendolo, provocando un travisamento, che è la sua maniera di non aderire al proprio ménage professionale, e tener così intatta, bruciante, la passione.
È certamente possibile seguire queste istantanee come un racconto. Tenendo debitamente conto dell’impermanenza del tratto, dell’inquadratura, delle indicazioni che Paolo lascia a breve commento, a fermare qualcosa, perché la memoria poi non lo smentisca. Si vedono anche linee e segni che velocemente costruiscono il paesaggio, uno schizzo che si sovrappone all’acquerello vero e proprio. C’è sempre grande fiducia nel mezzo. Nella possibilità del disegno di dire la verità su di una cosa. C’è anche, probabilmente, un atto magico, la ricerca di un effetto apotropaico. Io credo che ci sia in ogni gesto con cui fissiamo quel che non si ferma, e lo facciamo in forme che in qualche modo contengono l’instabilità.
Naturalmente esiste anche un plot, ed è rispetto alla sua veridicità che vorremmo essere rassicurati. Quando Lawrence Durrell pubblicò “Justine”, il primo dei romanzi che appartengono al cosiddetto “Quartetto di Alessandria”, raccontando, attraverso la finzione letteraria, il proprio amore per Yvette Cohen, la donna conosciuta nel 1943 nella città egiziana, era genuinamente convinto di riportare una sorta di cronaca di quella passione. Con il secondo romanzo, “Balthazar”, tutto però viene ribaltato: l’amore si rivela inautentico. Justine era legata a un altro uomo. Cosa resta allora della prima narrazione. “Mountolive”, il terzo romanzo, cambia ancora una volta la prospettiva sugli stessi fatti. La narrazione stavolta è in terza persona. Una presa di distanza che tradisce l’illusione di poter ancora arrivare a una verità. “Clea”, il romanzo conclusivo, compie un salto temporale. Il protagonista torna ad Alessandria, e deve prendere atto che quella città non esiste più. Con essa, sono svaniti probabilmente i fatti raccontati nei romanzi precedenti. La verità non c’è più, e dunque non è mai esistita.
Il disegno non è la scrittura. Questo è il primo dato positivo. E Paolo Galetto afferma di non essere mai stato tradito dal disegno. La ragione è molto semplice. I suoi acquerelli contengono tutta la verità che ci si aspetta da essi. Non sono uno strumento d’indagine della realtà. Si posizionano sull’altro crinale, quello delle cose a cui non si può, non si deve credere, se non per il tempo necessario a realizzarlo. Il mondo che contengono è meno di un’impressione. È un riverbero e un’eco. Guai a rimettere insieme quei segni in un racconto, sperando che ci dica qualcosa di quanto è accaduto. Un vecchio film, “I misteri del Giardino di Compton House” di Peter Greenaway, giocava a interpretare i fatti che accadevano in una tenuta inglese attraverso i disegni di un vedutista. Nulla di più ingannevole. Si rischia una fine sciagurata.
Il disegno dunque non tradisce non perché dica la verità del mondo, ma perché è un gesto gratuito, provvisorio, irripetibile, frutto esclusivamente di un estro, almeno nella maniera in cui lo pratica Paolo. Ci pone dunque la questione del brevissimo presente del suo farsi contro tutto il resto del tempo. Quando è finito, un attimo modo, il suo senso si riduce all’esito. Svanita è l’intenzione, e quel che l’ha prodotta. Siamo rincuorati da questa sincerità, o l’avvertiamo come un limite? Personalmente detesto la parola bellezza. Ma è chiaro che in qualche modo occorre pur rapportarsi con il lavoro di Paolo Galetto, e io credo che quel che più mi affascina è che dentro, per quanto io mi possa soffermare sui suoi acquerelli, non vi è nulla da decifrare. In questo senso mi appare palesemente aderente allo spirito dei luoghi del viaggio che ha qui riportato, senza volerli documentare o raccontare. Con la certezza che la lettera delude sempre rispetto all’occhio, e l’occhio, se lo si asseconda, registra tutto ciò per cui vale la pena vivere.
Paolo Galetto
Paolo Galetto (Torino, 1962) vive e lavora tra Torino, Antibes, Nizza e Parigi. Ha lavorato a lungo come visualizer, realizzando centinaia di storyboard per alcuni dei più importanti brand internazionali. Parallelamente ha sempre dipinto, focalizzandosi sull’utilizzo dei colori ad acqua e utilizzando come supporto la carta. Estremamente riservato e dedito ancorché alla vita, ha atteso più di vent’anni anni per mostrare i propri lavori. La sua ricerca si è concentrata prima sul paesaggio, poi sulla figura umana, sui visi, sui corpi, sulle scarpe femminili, sui fiori. Suoi i ritratti dedicati ai più importanti intellettuali italiani e stranieri sulla prima pagina della cultura de La Stampa e ad alcuni tra i personaggi femminili più affascinanti del nostro tempo su Vogue Italia. Inserito dalla prestigiosa rivista Illustration now! 5 tra i 150 migliori illustratori al mondo, nel 2015 ha vinto un Leone di Bronzo ai Cannes Lions, uno dei più importanti riconoscimenti nel campo della creatività e della comunicazione.
Info
Paolo Galetto | Cicladi a/r
Da sabato 21 maggio a domenica 19 giugno 2022, negli orari di apertura della Fondazione
(tutti i giorni, dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 14.00 alle 18.00)
Vernissage: sabato 21 maggio 2022, ore 17.30
Finissage: domenica 19 giugno, ore 17.00
Chiesa SS. Giacomo e Cristoforo, Santo Stefano Belbo
Piazza Luigi Ciriotti, 1 (già Piazza Confraternita)