Premio Pavese

Premio Pavese: la parola alla giuria/2

Aspettando il Premio Pavese 2019, abbiamo chiesto ai membri della giuria di raccontarci il nuovo corso dell’iniziativa. Qui, il punto di vista di Giulia Boringhieri.

Perché il Premio Pavese? In una nazione in cui sono diversi i Premi letterari, quale può essere il valore aggiunto di un Premio dedicato al grande scrittore santostefanese? 

Il Premio ha un’identità forte, e non corre alcun rischio di annegare nel mare magnum delle manifestazioni culturali, utili o inutili che siano. Le ragioni sono molteplici, e tutte in qualche modo legate proprio alla persona a cui è intitolato. Provo a elencarle in ordine sparso. 

Primo, il Premio nasce da una riflessione intorno alla figura di Cesare Pavese. Senza fare l’errore di mitizzarlo – di far assurgere a mito proprio il grande cantore del mito! – è innegabile che Pavese sia stata una delle personalità più complesse e interessanti della letteratura italiana del ‘900, da ricordare e riproporre in tutte le forme possibili. La prima ragione è quindi, banalmente, rendere omaggio a Pavese, in una veste rinnovata rispetto al passato, più mirata. 

La seconda ragione, inscindibile dalla prima, è che le sezioni che compongono il premio lo distinguono nettamente dai suoi simili. Noi infatti intendiamo ricordare Cesare Pavese non solo come scrittore, ma anche come direttore editoriale e traduttore, ruoli in cui Pavese, nei suoi 42 anni di vita, ha manifestato altrettanta originalità e genialità. Lo scopo del Premio è esattamente quello di rendere omaggio alle persone che oggi in Italia svolgono quegli stessi mestieri a livelli di eccellenza, come Pavese; di portare allo scoperto professionalità meno visibili ma assolutamente essenziali e creative del processo culturale, e dar loro modo di raccontare le proprie storie. E sono storie, vi assicuro, davvero molto interessanti.

Per finire, non si tratta di una kermesse elitaria ma di un evento pubblico, sia la domenica della premiazione sia il sabato precedente. Un premio sicuramente molto legato al territorio – le Langhe, così centrali nell’opera di Pavese – e che nasce da un’iniziativa locale, ma allo stesso tempo tanto poco provinciale quanto lo era Pavese, il cui sguardo partiva, sì, dal Piemonte della sua infanzia, ma per coprire orizzonti inesplorati.

Pavese inizia la sua carriera come traduttore imparando l’inglese da autodidatta e in un periodo in cui gli strumenti a disposizione per avvicinarsi ad una lingua straniera erano limitati. Che cosa significava tradurre, in Italia, nella prima metà del Novecento, e che cosa significa oggi? 

Negli anni ’30 e ‘40 i traduttori coprivano vasti territori pressoché vergini, autori mai letti, non solo recenti ma anche vecchi di qualche decennio, che il fascismo e la censura, ostili alla cultura angloamericana, rendevano difficile, quando non proibito, introdurre nel nostro Paese. Di qui l’ebrezza con cui Pavese poteva proporre i suoi autori americani, Leone Ginzburg i suoi russi, e via dicendo, senza dimenticare i traduttori di opere saggistiche, altrettanto fondamentali nella diffusione della cultura storica, economica, scientifica, eccetera. Il secondo dopoguerra, poi, con la rinascita dell’Italia dalle ceneri del fascismo, è stato un periodo che possiamo definire addirittura “eroico” della traduzione, da tutte le lingue, affidata a personalità del calibro, appunto, di Pavese.

Noi oggi viviamo una situazione molto diversa, la produzione editoriale è aumentata a dismisura, i canali di comunicazione si sono moltiplicati, eccetera. Ma finché non parleremo tutti la stessa lingua, su questo pianeta, la traduzione sarà sempre necessaria. E la scienza avrà sempre bisogno di essere tradotta con rigore, e la letteratura con una bella lingua, e tutto possibilmente con rigore e stile insieme. Le nuove tecnologie, infatti, non hanno cambiato di una virgola il mestiere del tradurre, e del tradurre letterario in particolare, che continua a essere un lavoro di mediazione e creativo, umile e orgoglioso, ancillare e autoriale, allo stesso tempo. Se mai, la quantità di libri e traduttori presenti sul mercato rende oggi ancora più prezioso il lavoro di qualità. E la qualità non va mai data per scontata. Va premiata.

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