Paolo Galetto per Fondazione Cesare Pavese - Anniversario dei 70 anni dalla morte di Cesare Pavese

Premio Pavese: Anna Nadotti

Anna Nadotti è la vincitrice del Premio Pavese 2020 per la sezione Traduzione. Ecco il testo della sua lectio alla cerimonia del 25 ottobre.

Nelle motivazioni del Premio Pavese ad Anna Nadotti si legge: “La preparazione con cui si avvicina ai suoi autori è assoluta ed esemplare: un’immersione totale, spesso non solo virtuale ma anche reale, nei mondi che deve tradurre, siano essi Londra o Calcutta. E non solo oggettiva, documentaria, ma anche soggettiva, sensoriale. Per non perdere nessun riferimento, nessuna sfumatura; per immergersi nei suoni, negli odori, nei paesaggi, nelle luci. Una sorta di metodo Stanislavskij della traduzione.” Eccone un assaggio nel testo della lectio magistralis che Anna Nadotti ha tenuto nel corso della cerimonia di consegna del Premio Pavese 2020, domenica 25 ottobre 2020. 

Dei suoi luoghi d’origine, Cesare Pavese scriveva: «È una terra che non attende e non dice parole».

Le Langhe sono una terra bellissima e sobria, che conosco bene e di cui amo i colori e le malinconie. Ma le mie origini sono in una terra che si allunga pigramente verso l’Adriatico, e canta. Imparai (il passato remoto mi è d’obbligo) a leggere e a scrivere a Parma. E oggi, per ringraziarvi di questo premio e delle sue motivazioni, che mi hanno profondamente commossa, desidero fare una cosa soltanto, farvi sentire le voci, non tutte ma almeno alcune delle tante a cui in trentadue anni ho dato la mia per dire e dirsi nella nostra lingua, ritrovandomi spesso zittita, e spaesata e perfino muta per giorni. Così succede, quando si recita a soggetto dato, entrando in scena in punta di piedi quando lo spettacolo è finito. e allo stesso modo uscendone.

«La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei». E ce n’erano moltissimi, nel negozio della signorina Pym, «i piselli odorosi si allargavano nelle ciotole, screziati di viola, bianco neve, pallidi… e i delphinium, i garofani e le calle; era quell’attimo fra le sei e le sette in cui ogni fiore risplende – rose, garofani, iris, lillà; bianco, violetto, rosso, arancione intenso; ogni fiore sembrava ardere di luce propria, tenero, puro, nelle aiuole già velate dalla foschia»Come sarebbe stata, quella mattina di Clarissa Dalloway, mi chiedevo? «Fresca, come se fosse scaturita per dei bambini su una spiaggia». A dire il vero, quella mattina sarebbe stata solo l’inizio della giornata di Clarissa, di Peter Walsh e di Septimus Warren Smith, di sua moglie Lucrezia, e di Elizabeth Dalloway, la figlia «non graziosa, direi, bella piuttosto», che la critica aveva finora smarrito, forse perché alla presunta algidità di sua madre oppone una fantasiosa e molto fisica energia di cui la lingua di Woolf dà conto: «Era così piacevole star fuori, all’aperto. Forse non c’era bisogno che tornasse subito a casa. […] Elizabeth si fece avanti e con assoluta disinvoltura salì su un omnibus, per prima. Andò a sedersi al piano alto. […] E adesso pareva di cavalcare, in quella corsa sfrenata su per Whitehall; e a ogni scossa dell’omnibus lo splendido corpo nella giacca fulvo chiaro reagiva con la spontaneità di una cavallerizza, della polena di una nave, perché la brezza le scompigliava un po’ i capelli; il caldo dava alle sue gote il chiarore del legno dipinto di bianco; e i suoi begli occhi, non avendo occhi da incrociare, guardavano avanti, neutri, luminosi, con l’incredibile innocenza di una scultura»

Io leggevo le lunghe stringhe woolfiane e non c’era parola che non fosse in qualche misura aurorale, dovendola tradurre di nuovo, in quel romanzo così noto e amato. E sarebbe stato lo stesso, di lì a poco, traducendo To the Lighthouse. Verso quel faro sono andata per giorni e notti.

«Ma cos’è dopotutto una notte? Uno spazio breve, specialmente quando l’oscurità si attenua così presto, e così presto cinguetta un uccello, un gallo canta, o un pallido verde si affretta, come una foglia che si schiude, nell’incavo dell’onda. La notte, del resto, succede alla notte. L’inverno ne ha in serbo una scorta e le distribuisce equamente, pacatamente, con dita instancabili. Si allungano; si anneriscono. Alcune reggono lassù pianeti chiari, lamine di luminosità. Gli alberi d’autunno, pur devastati, assumono il bagliore di laceri vessilli accesi nell’oscurità di fredde cripte di cattedrali dove lettere dorate su pagine di marmo dicono di morti in battaglia e di ossa calcinate e incenerite fra le lontane sabbie dell’India».

Le sabbie e le città dell’India non erano lontane, anzi, di rado le ho sentite così vicine come nei due anni in cui ho tradotto Woolf. «L’India intera si stendeva alle spalle» di Peter Walsh e «Un passero posato sulla cancellata di fronte cinguettò Septimus, Septimus, per quattro o cinque volte, e continuò, cavando le note dall’ugola, a cantare fresco e penetrante in greco che il crimine non esiste, poi, raggiunto da un altro passero, cantarono in greco all’unisono con note prolungate e acute, dalle chiome degli alberi nel prato della vita al di là di un fiume dove i morti camminano, che non c’è nessuna morte».

Se nei parchi londinesi di quel primo dopoguerra gli uccelli cantavano in greco, a New Delhi, alla vigilia della Partizione, «I cuculi cominciarono a lanciare i loro richiami ancor prima dell’alba. Le loro voci emergevano come un concerto di campane dalle fronde oscure degli alberi, chiamandosi e facendosi eco reciprocamente, schernendosi e istigandosi con trilli via via più acuti. Si affollarono sempre più numerosi mentre il sole saliva nel cielo finché Tara, non riuscendo più a sopportarne il querulo vocio, si alzò e uscì sulla veranda dove trovò soltanto il bagliore del sole estivo che s’insinuava tra le colonne… e dove una silenziosa fila di formiche oltrepassò i suoi piedi e discese i gradini della veranda scomparendo in giardino».

Quale giardino? 

«Il giardino di mezzo, creato per uomini increati, assopito nel grembo del tempo»?

O «Un giardino dipinto», o «un giardino essiccato»? per portare in Inghilterra copie perfette di alberi e fiori e sementi orientali, non potendo portare con sé un tangibile giardino cinese: «Paesaggio costruito ad arte di ruscelli e ponti, laghi e colline, rocce e foreste, con sentieri serpeggianti e mura simili a onde».

Oppure «Un giardino galleggiante»? un giardino rubato e trasportato in Europa via mare, i ponti di una goletta come muli beccheggianti…

Dietro ogni giardino inglese, traducendo, intravedi piantagioni, e ogni aggettivo che scegli diventa un’inquadratura, dell’ora e del luogo, di una natura che c’era e non c’è più, e non è sparita per magia: «Prima che fosse disboscato, la bellezza del luogo era al di là di qualunque immaginazione, ma era giungla, fitta, torreggiante, intricata, impraticabile. Era come camminare lungo la navata coperta di tappeti di una chiesa, con le fronde che s’incontravano lassù, lontanissime, formando una volta senza fine… Mesi dopo, sembrava che sul fianco della collina si fosse abbattuta una serie di calamità: enormi strisce di terreno erano ricoperte di cenere e monconi anneriti. Gli operai vivevano in minuscoli tuguri con il tetto di arbusti e foglie. Erano tutti indiani, del sud: lo squallore era inimmaginabile, il pavimento coperto di sudiciume».

Mentre traduco, l’impetuoso rigoglio della giungla malese cede il posto all’ordinata geometria della piantagione, e le pianure indiane solcate dal Gange e il Brahmaputra si coprono dei petali bianchi del papavero da oppio. Tronchi perfetti fluitano lungo i corsi d’acqua sapientemente governati da oo-si, pe-si ed elefanti; «la bandiera inglese sventola sulla fabbrica dell’oppio e i vascelli a bassobordo issano i guidoni della Compagnia delle Indie orientali». E ciò avviene in un moltiplicarsi di lingue, di storie, di voci, di imprecazioni e allegrie. Che fare per darne conto? Tendere l’orecchio, ascoltare. «Nella vita professionale di Kanai c’erano state alcune circostanze in cui l’atto dell’interpretazione gli aveva dato la momentanea sensazione di essere trasportato fuori dal suo corpo e introdotto in un altro. Ogni volta era come se la lingua subisse una metamorfosi: cessava di essere una barriera, una cortina di separazione, e diventava una pellicola trasparente, un prisma che gli permetteva di vedere con altri occhi, di filtrare il mondo attraverso una mente altra dalla sua». 

Così succede. Ogni voce scivola a poco a poco in un’altra voce che è e non è la stessa, tersa o arrugginita o rabbiosa o spaventata o amorevole che sia, e tu intanto cominci a sentirne altre, perché lungo quelle stesse rotte si muovono ora nuove imbarcazioni, non più navi negriere, ma scafi sgangherati, da cui provengono altre voci. Di chi? «Ai trafficanti non interessa chi portano nel paese, badano solo ai numeri. A loro basta riempire le barche. Uomini o donne… sono solo corpi», corpi da lavoro. «Non molto tempo prima avevo notato che un precario accampamento stava sorgendo al limite della giungla, a circa sei metri dalla strada, intorno a un piccolo cubo di cemento abbandonato, che doveva essere stato un emporio o un bar. Qualche pezzo d’incerata teso dai tronchi all’edificio fatiscente. C’era un fuoco che bruciava, e seduti intorno dei bimbi piccoli, che lanciavano pigramente bastoncini tra le fiamme. Capivi subito che era un campo di migranti… rohinga, bangla, o quel che è».

Inutile chiedersi dove e quando, perché sai che la riposta è, Qui, adesso. Non ti sei distratta, o persa per strada, o smarrita nel tempo. È che «i libri sono la continuazione l’uno dell’altro, nonostante la nostra abitudine a considerarli separatamente»

È che «lo stormire e il bisbigliare del giardino divennero come curve e arabeschi che fiorivano intorno a un centro di vuoto assoluto».

«[Il signor Ramsay incespicando nel corridoio tese le braccia una buia mattina, ma, poiché la signora Ramsay era morta all’improvviso durante la notte, tese le braccia invano. Rimasero vuote.]».

Cicatrici del testo, premonitrici, le parentesi quadre di Woolf. Cicatrici reali, ossa scompagnate quelle fra cui mi muovo dando voce alle storie di un secolo breve che si allunga in quello successivo: «Le mie aspettative, riguardo a mio padre, erano molto normali. Come quel famoso figlio nell’Odissea – come la maggior parte dei figli, credo – desideravo essere “figlio di un uomo felice, che arriva alla vecchiaia con tutti i suoi beni”. Invece io, a differenza di Telemaco, io continuo, dopo venticinque anni, a sopportare che il padre sia “scomparso nel nulla, ignoto”. Invidio l’irrevocabilità dei funerali. Bramo la certezza. Come dev’essere avvolgere le proprie mani intorno alle ossa, decidere come dar loro sepoltura, carezzare il tumulo di terra e recitare una preghiera».

Cicatrici reali, ossa scompagnate, lividi.

«Li vedevi spesso, bangladesi pelle e ossa con gli occhi arrossati e chiazze scorticate sul viso e le braccia a causa di tutti i pesticidi che spruzzavano. Sempre in movimento. Sempre con l’aria di essere in cerca di qualcosa, e tuttavia sempre un po’ lenti nel muoversi, come se l’aria intorno fosse diventata acqua e loro stessero attraversando il mondo a guado. Camminare in acqua. L’ossigeno risucchiato dal loro mondo…».

Ossigeno…

«Rattopparli se avevano ferite o lividi. Non si doveva vedere niente di brutto, niente carne viva, niente fratture evidenti, cose così… a nessun datore di lavoro piace vedere uomini segnati dalle malattie o coperti di ferite. E le donne meno che mai… bisognava che fossero lavate e pulite. Dio solo sa cos’avevano passato le donne prima di arrivare in questo paese».

Le donne…

«C’è un passo in uno dei tuoi libri, in cui racconti di aver sofferto qualcosa di simile, e io l’ho tradotto con molta attenzione ed estrema cautela, come se fosse qualcosa di fragile che sbagliando avrei potuto rompere o uccidere, perché quel tipo di esperienze non appartiene del tutto alla realtà e l’unica prova è la parola di una persona contro la parola di un’altra. Era importante per me non fraintendere neanche una parola, e dopo ho sentito che se tu avevi legittimato quella semirealtà scrivendone, io l’avevo legittimata di nuovo trasportandola in un’altra lingua e garantendone la sopravvivenza».

«Uno scrittore fa un incantesimo, invitando il lettore nel cerchio magico del mondo del libro. Con parole sottili, chi scrive induce un lettore a sentire un prurito sulla pelle, le labbra che si socchiudono, il sangue che accelera nelle vene». Chi traduce sente più forte che mai il prurito sulla pelle, socchiude le labbra fino all’apnea, sente scorrere il sangue nelle vene con l’insidiosa velocità delle parole, «le parole possono costare delle vite»e a sua volta invita il lettore d’altra lingua in quel medesimo cerchio magico, che lei/lui ridisegna e in cui silenziosamente s’inscrive.

Sono grata a Virginia Woolf, ad Amitav Ghosh, ad Antonia S. Byatt e Anita Desaia Hisham Matar, Tash Aw e Rachel Cusk.

E vi ringrazio molto, del premio, e di aver letto e ascoltato. 

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