Con questo testo sul valore della scrittura come elemento vitale, Ludovica Luparia ha vinto il Premio Pavese Scuole 2024.
Pubblichiamo Aut Cæsar aut nihil. La sublimazione della vita nella scrittura e viceversa in Cesare Pavese, il testo vincitore della quinta edizione del Premio Pavese Scuole, riconoscimento che affianca il Premio Pavese per avvicinare i giovani allo scrittore e promuovere la lettura delle sue opere in chiave personale. L’autrice è Ludovica Luparia, del Liceo Scientifico Galileo Galilei di Nizza Monferrato (AT), classe 5 AL, cui vanno i nostri complimenti.
Oh, se voi sapeste quante volte sono stato
innamorato in questo mondo! […] Di nessuno, di
un ideale, che mi appare in un sogno. Sognando
creo interi romanzi.
Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche
Bisogna esser pazzi, non sognatori.
Essere al di qua dell’assestamento, non al di là.
Un pazzo può ancora rinsavire, ma al sognatore
non resta che staccarsi da terra. Il pazzo ha dei
nemici. Il sognatore non ha che se stesso.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Un’analisi approfondita e personale di ciò che è il mestiere dello scrittore, compenetrato esistenzialmente al mestiere di vivere: ecco qual è uno dei numerosi percorsi di indagine seguiti da Cesare Pavese, ricostruibile attraverso le annotazioni del diario Il mestiere di vivere, le lettere che spedisce, le opere che scrive e pubblica. Si tratta di una vera e propria esplorazione gnoseologica della realtà che lo circonda, oltre che in prima battuta del suo stesso mondo interiore, messa in capo attraverso lo strumento più congeniale al poeta, ovvero la scrittura. Per mezzo dello studio e della letteratura Pavese scandaglia in solitaria la dimensione sociale e umana teorizzandola attraverso il mito, prende parte alla dimensione storica per mezzo dei suoi romanzi e affronta la dimensione sentimentale sfogandosi nei suoi versi e appunti. Indagatore delle più recondite e universali realtà dell’animo umano, scrive tentando di disvelare una qualche verità che gli permetta di trovare un senso alle cose, un senso in sé stesso:
L’interesse di questo giornale sarebbe il ripullulare imprevisto di
pensieri, di stati concettuali, che di per sé, meccanicamente,
segna i grandi filoni della tua vita interna. […] È l’originalità di
queste pagine: lasciare che la costruzione si faccia da sé, e
metterti innanzi oggettivamente il tuo spirito. C’è una fiducia
metafisica in questo sperare che la successione psicologica dei
tuoi pensieri si configuri a costruzione.
Il mestiere di vivere, 22 febbraio 1940
Tale percorso di scoperta e formazione assorbe completamente le energie del giovane Pavese e ne plasma profondamente la forma mentis, forgiando il carattere di un uomo complesso e tormentato, cosciente del proprio travaglio esistenziale, consapevole delle proprie difficoltà nell’interazione col mondo reale. L’attenzione del poeta verso la propria intimità individuale lo porta a sperimentare un profondo senso di solitudine, derivata inevitabilmente dall’attitudine poetica della sua anima nei confronti del mondo concreto. La ricerca dell’universale, del valore nobile, lo allontana inesorabilmente dagli altri uomini.
La condizione intellettuale ed esistenziale in cui si trova lo scrittore è oggetto della sua stessa autoanalisi, che viene condotta in numerose lettere scritte a Fernanda Pivano, sua ex allieva al Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino e donna per la quale il poeta prova un sentimento non corrisposto, una storia d’amore sublimata nella fitta corrispondenza che i due si scambiano. Pavese introduce Pivano al mondo dell’editoria e alimenta la sua passione per la letteratura americana e la traduzione, trovando in lei una confidente dalla disarmante vivacità intellettuale, con la quale si apre a personalissime confessioni. Nel carteggio dei due spicca una lettera in particolare, Analisi amorosa di P. (5 novembre 1940), nella quale Pavese mette in campo con lucidità quasi psicanalitica una puntuale introspezione:
P. è senza dubbio un uomo insolito […]. La sua tendenza
fondamentale è di dare ai suoi atti un significato che ne
trascenda l’effettiva portata; di fare dei suoi giorni una galleria di
momenti inconfondibili e assoluti. Nasce di qua che, qualunque
cosa dica o faccia, P. si sdoppia e mentre pare prendere parte
al dramma umano, altro intende nel suo intimo e già si muove in
una diversa atmosfera che traspare nelle azioni come
intenzione simbolica. Questa, che parrebbe doppiezza, è invece
un inevitabile riflesso della sua capacità di essere – davanti a
un foglio di carta – poeta.
Dalle sue parole traspare un drammatico dissidio interiore tra il Pavese uomo e il Pavese poeta, due figure che confliggono tra loro, mosse da contrastanti desideri, eppure costrette a convivere nella stessa persona. La scrittura diventa mezzo di sublimazione freudiana della realtà e dei sentimenti dello scrittore, il quale esprime attraverso la narrazione nei romanzi e i versi nelle poesie la propria tensione verso i sentimenti assoluti, le nobili passioni.
Il poeta prova una “smania di simbolismo, di assoluto” che non si limita a sfogare sulla pagina, ma che riversa dirompente nei tentativi di interagire con il prossimo, nei totalizzanti slanci sentimentali (“dall’intensità cosmica e inutile di un temporale d’agosto”) verso la donna amata, nella sofferenza per l’autoindotta solitudine.
Per quanto P. sia convinto che arte e vita vanno tenute
nettamente distinte, che scrivere è un mestiere come un altro,
come vendere i bottoni o zappare, non gli riesce di prendere la
sua esistenza altro che come un gigantesco spettacolo che lui
recita.
Nonostante lo sforzo di Pavese di dividere nettamente la propria vita personale da quella artistica, ben presto si rende conto dell’impossibilità di tale proposito. Essere poeta infatti non è una scelta per Pavese, un mestiere che egli sceglie volontariamente tra tanti altri: si tratta della sua natura, del suo destino. Egli non può sfuggire da sé stesso e si approccia alla vita da artista, da attore tragico per riprendere il suo stesso paragone, prima ancora che da uomo.
Rifugiarsi nel mondo simbolico e idealizzato della letteratura non basta più e lo scrittore si tuffa nella realtà delle cose: la passione “diventa carne di poesia”, il tentativo di sublimare la realtà umana nella scrittura si tramuta in tentativo di innalzare la realtà stessa al livello assoluto e simbolico della poesia. Pavese assume i connotati del sognatore dostoevskiano che rifiuta la banalità del mondo concreto e quotidiano, ma che al tempo stesso desidera disperatamente uscire dalla dimensione del sogno per provare finalmente qualcosa di vero, tangibile. Pavese vorrebbe vivere nella realtà ciò che ritrova sulla carta e per questo agisce con passione e impeto sentimentale totalizzante, senza però riscontrare altrettanta
drammatica autenticità in coloro che lo circondano.
P. gioca fino in fondo la sua parte amorosa, primo per il suo
bisogno feroce di uscire dalla solitudine, secondo per il bisogno
di credere totalitariamente alla passione che soffre, per il terrore
di vivere un semplice stato fisiologico, di essere soltanto il
protagonista di un’avventuretta. P. vuole che ciò che prova sia
nobile, significhi, simboleggi una nobiltà sua e delle cose. […]
Ma chi gli chiede di sacrificare l’ingegno o la vita? Quale donna,
chiede a un uomo di perdere assolutamente ogni staffa e ogni
puntello?
Il sognatore protagonista del racconto Le notti bianche di Dostoevskij si rifugia nella dimensione immaginifica del sogno carpendo alla realtà quotidiana attimi e immagini, elaborandoli, rubandoli ai passanti o prendendoli in prestito dalle facciate delle case di Pietroburgo: costruisce e domina il suo mondo fittizio, prendendosi gioco del mondo reale. Si percepisce quasi l’ombra lontana di quel “cavaliere dalla triste figura” di Cervantes, nella sua volontà al tempo stesso coraggiosa e autodistruttiva di trasfigurare il mondo tramite la letteratura. Allo stesso modo Cesare Pavese presenta la figura dello scrittore come un profondo conoscitore della vita e dominatore della sua realtà per mezzo della scrittura. Lo scrittore sfida la vita: «Tu non mi fai fesso: so come ti comporti, ti seguo e ti prevedo, godo anzi a vederti fare, e ti rubo il segreto componendoti in scaltrite costruzioni che arrestano il tuo flusso» [Il mestiere di vivere, 10 novembre 1938].
Per giungere però allo stato di superiorità descritto da Pavese, lo scrittore è costretto ad estraniarsi dalla vita stessa, osservarla da lontano, dal di fuori. Questo distacco intellettuale diventa una forma di difesa nei confronti delle offese (e delle delusioni soprattutto) della vita, ma anche una condanna che prosciuga l’uomo e lo isola in una condizione di profonda solitudine.
Il poeta è solo. Il sognatore è solo. Così come lo scrittore si rifugia nella scrittura, il sognatore dostoevskiano si rifugia nella dimensione privata del sogno. Non c’è spazio per amici o conoscenti per chi è bloccato tra l’attesa di vivere e la paura di vivere sul serio. Si tratta di una suggestione che dovrebbe far riflettere, soprattutto nel mondo contemporaneo, sempre più virtuale e meno reale. Gli individui sono interconnessi per mezzo dei social network ma raramente sono uniti da rapporti di genuina comprensione e vicinanza. Alienazione ed evitamento sono la norma in una società in cui sognatori e poeti sono una specie a rischio, troppo spesso soppiantata da passivi utenti digitali.
Pavese però è uno scrittore e scrivendo esprime tutto ciò che conosce di sé e del mondo, trasponendo sul foglio supposizioni, intuizioni, travagli dell’animo: il processo creativo diventa sia un atto liberatorio che un sacrificio doloroso, una vera e propria ferita dalla quale sgorgano dolore e parole. Ma una volta finiti, una poesia o un romanzo non possono sopperire alla necessità di compagnia e comprensione del proprio autore: nasce la necessità di un pubblico, del riscontro nell’altro. Scrivere è in fondo l’espressione più alta dell’esigenza di comunicazione con il prossimo, che Pavese descrive come la volontà di rompere una barriera di incomunicabilità che sembra irrimediabilmente isolare le anime le une dalle altre.
Ma se anche la scrittura si dimostra impotente di fronte a questi ostacoli, inevitabile è la crisi del poeta:
[…] accorgersi che tutto questo è come nulla se un segno
umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda – e
morir di freddo – parlare al deserto – essere solo notte e giorno
come un morto.
Il mestiere di vivere, 27 giugno 1944
La vanità della poesia dettata dall’assenza di un pubblico si delinea come una certezza perentoria, una consapevolezza lacerante e frustrante per il poeta, che evoca immagini estreme e luttuose: la solitudine costante e invalicabile provata da Pavese diventa una sensazione di morte nella vita. A fronte di queste consapevolezze non è più possibile anteporre il mondo letterario a quello reale e non sarebbe più possibile il ripetersi di una scena come quella descritta dai collaboratori di Pavese presso la casa editrice Einaudi nell’agosto del 1943: dopo una serie di bombardamenti notturni che hanno intaccato la sede editoriale, Pavese arriva di buona mattina, ripulisce la propria scrivania dai calcinacci e inizia a correggere le bozze, senza scomporsi.
Di fronte alla vanità del tentativo di comunicazione col pubblico, scrivere si trasforma in un sacrificio inutile e i calcinacci che prima potevano essere ignorati diventano un ingombro concreto e doloroso. I detriti di quei muri si trasmutano nei detriti di un’intera vita sacrificata in nome della scrittura e dello studio. Uno scrittore che vive così intensamente il proprio ruolo, può dire davvero di aver vissuto pienamente la reale vita quotidiana? «Pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato»: questa la risposta di Eugenio Montale [Intenzioni (un’intervista immaginaria), La rassegna letteraria, 1946]. Il poeta immola la sua stessa vita in difesa della supremazia dell’ideale letterario.
“Ripeness is all”, scrive Pavese in esergo a La luna e i falò, ma egli si rende conto di aver rinunciato al raggiungimento della propria maturità sentimentale ed esistenziale pur di raggiungere quella letteraria ed ora che il valore della seconda vacilla, la mancanza della prima diventa insostenibile.
[…] non t’accorgi di vivere perché cerchi il nuovo tema, passi
trasognato i giorni e le cose. Quando avrai ricominciato a
scrivere, penserai soltanto a scrivere. Insomma, quand’è che
vivi? che tocchi il fondo? Sei sempre distratto dal tuo lavoro.
Giungerai alla morte senza accorgertene.
Il mestiere di vivere, 28 gennaio 1949
È simile la conclusione a cui giunge la parabola narrativa del sognatore protagonista del racconto di Dostoevskij:
E ti chiedi: “Dove sono i tuoi sogni?”, e scuotendo la testa dici:
“Come volano in fretta gli anni!”. E di nuovo ti chiedi: “Che cosa
hai fatto con i tuoi anni? Dove hai sepolto il tuo tempo migliore?
Hai vissuto o no?”
Si apre dunque il varco per una spirale di pensieri nichilisti, pronti a rivalutare in negativo ogni aspetto della propria carriera letteraria e della vita privata. Neanche il successo pubblico con la vittoria del Premio Strega può sviare Pavese dalla convinzione della vanità di una vita spesa a poetare. «A Roma, apoteosi. E con questo?» [Il mestiere di vivere, 14 luglio 1950]: sono queste le parole con cui descrive la premiazione nella capitale. Il coronamento del successo della sua carriera viene accompagnato da un fallimento sentimentale particolarmente sentito, ovvero la fine della storia d’amore con l’attrice americana Constance Dowling, ulteriore conferma ai suoi occhi del proprio insuccesso nella vita reale.
“Aut Caesar aut nihil” [Analisi amorosa di P.], così aveva scritto dieci anni prima, tentando di spiegarsi a Fernanda Pivano e a se stesso: Pavese non accetta mezze misure, non si accontenta di niente di meno del simbolismo, dell’assoluto e dei nobili valori dei quali ha letto e scritto per tutta la sua vita.
Di fronte al dolore e alla solitudine, al prosciugamento della propria vena poetica dovuto all’incomunicabilità delle anime e all’incompatibilità relazionale con il resto del mondo, quel “nihil” diventa l’unica opzione possibile. La scrittura non è più un rifugio salvifico. Niente di nuovo può essere scritto. Niente può essere fatto. Niente, tranne una cosa: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più.» [Il mestiere di vivere, 18 agosto 1950]