Con questo testo sul valore della scrittura come elemento vitale, Sofia Claudia Zocchi si è classificata terza al Premio Pavese Scuole 2024.
Pubblichiamo il testo che si è aggiudicato il terzo posto alla quinta edizione del Premio Pavese Scuole, riconoscimento che affianca il Premio Pavese per avvicinare i giovani allo scrittore e promuovere la lettura delle sue opere in chiave personale. L’autrice è Sofia Claudia Zocchi del Liceo Vincenzo Monti di Cesena, classe 5 AC, cui vanno i nostri complimenti.
Qualcuno avrebbe definito le ore che passavo sul mio balconcino mattini chiari e deserti. In piedi dalle cinque a scrivere, cancellare, rileggere, bucare la carta con la penna.
L’estate dei miei diciannove anni trascorse così, scandita dal suono delle campane della chiesa; e anche se dal mio piccolo rifugio il sagrato non si vedeva, io lo immaginavo benissimo. Ero arrivata salendo su un treno pieno, poi su un autobus vuoto: non che facesse differenza. Mi aveva convinta a partire una riga scritta a matita su un foglietto, poche ore dopo la fine degli esami di maturità: In aula, solo complimenti. E con questo? Avevo capito di essere sola, e di non sentirmi davvero compresa da nessuno. Dunque, avevo fatto una telefonata o due.
La mia decisione di auto-esiliarmi in campagna aveva provocato grande confusione tra i miei conoscenti; tra i familiari no, ma credo che si sarebbero stupiti solo se fossi stata allegra. I primi giorni nel paesino che in qualche maniera avevo nel sangue, che apparteneva alla nonna e a chissà quante generazioni prima di lei, furono di vuoto totale; poi, quando anche pensare iniziò a disgustarmi, entrai in salotto. La nonna, venuta in mio soccorso alla fermata del bus, era un’ accumulatrice seriale di libri. Non era laureata né diplomata, ma aveva lavorato, a suo tempo, in una tipografia, e lì, tra la carta e l’inchiostro, diceva di aveva conosciuto l’amore per la prima volta. Se nelle camere da letto e in cucina la quantità di libri era moderata, nella stanza più grande della casa era fuori controllo. Tomi e libriccini di qualsiasi argomento, dal romanzo storico al comunismo cinese, si accumulavano fuori e dentro la libreria, che pure occupava la parete lunga del salotto. Di fronte alla mia timida richiesta -Non è che potresti prestarmi…- la nonna tirò fuori un volume dalla copertina color crema: Il mestiere di vivere; diario 1935-1950.
Da quel giorno cominciai a rifugiarmi sul piccolo balcone della cucina, con il libro e a fianco un quaderno e una penna che avevo pensato bene di portare da casa. «6 ottobre. Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che…»
Quello che avevo tra le mani, era senza dubbio uno strano diario: avevo sempre pensato al tenerne uno come ad una faccenda molto diversa. Sembrava, più che un resoconto della vita di qualcuno, di leggere degli appunti di ricerca. Un archeologo che lavora con una cazzuola, e con il passare dei giorni trova un cranio, dei denti, un femore: ma si accorge che sono i suoi, e allora ricomincia a scavare, sempre più veloce, sempre più a fondo.
Mi alzavo all’alba, per avere un po’ di pace dall’afa, e leggevo per ore, perché mi accorgevo che questa ricerca per certi versi riguardava anche me.
Il terzo giorno decisi di iniziare a scrivere qualcosa. Era martedì, e avevo appena letto una frase datata 29 dicembre 1935: «Ma in fondo il poetare è una ferita sempre aperta, donde si sfoga la buona salute del corpo».
Un mistero quello che pensai sul momento: provando a ricostruire, finirei solamente per aggiungervi una comprensione che all’epoca non possedevo. Forse certi istinti non possono essere spiegati completamente. Nulla di straordinario, dopo tutto: a scrivere si impara in prima elementare. Questo però era qualcosa di più, e me ne accorsi. Non stavo solo trascinando la punta di una penna su un foglio: stavo cominciando a scavare, avevo preso anche io la mia cazzuola, come l’archeologo. Cercavo nell’inchiostro che macchiava la carta e le mie dita, cercavo nelle parole che affollavano le pagine del quaderno; cercavo me stessa. «Non si cerca che questo».
Non pretendevo di trovare, insieme alle mie ossa, anche un senso generale del mondo: volevo però qualcosa che valesse la pena del mio mestiere. Volevo capire che significato dare a ciò che mi circondava e trovare uno scopo.
Ma ciò che cercavo con più entusiasmo era un modo di rompere la mia solitudine. Mi ero accorta, fin dal giorno del mio arrivo, di non averla lasciata a casa: mi aveva seguita sul treno e sull’autobus, e ora, appollaiata sul davanzale, rideva dei miei sforzi. Mi colpiva dal nulla, mentre leggevo, o quando prendevo la penna in mano, o durante le mie passeggiate serali per i campi; un pugno dritto nello stomaco, un colpo sulla nuca. La consapevolezza di essere sola. Era un sentimento che si era trasformato, non era più
quello che mi aveva spinta a partire: non dipendeva dalle amicizie giuste o sbagliate, o da quello che facevo o avrei fatto. Si trattava del pensiero che nessuno può davvero comprendere l’altro o essere compreso. L’angoscia dell’isolamento.
Consumai tre penne, mi tormentai per settimane. È possibile conoscere una persona o farsi conoscere completamente? Arrivavo sempre alla stessa conclusione: no, e forse non è nemmeno giusto. Allora, come si fa a vivere con gli altri, ma da sconosciuti? Domande senza risposta.
Ripartii alla fine di agosto, con il cuore pesante e il libro della nonna in mano, convinta di non aver concluso nulla: ero fuggita e rientrata a casa sconfitta. Nonostante tutto, però, le mattine passate seduta sul balcone mi avevano permesso di trovare un modo per conoscere veramente me stessa: la scrittura. Avevo condotto la mia indagine attraverso la parola, in un modo che mi era del tutto nuovo. Restava il problema della solitudine. L’essere sola con me stessa e non poter davvero comunicare con gli altri mi terrorizzava.
I dubbi sembravano bruciarmi sotto la pelle. Così continuai il mio scavo archeologico: stavolta non scavavo con una penna, ma con le mie mani, che giravano una pagina dopo l’altra. Amavo i romanzi, soprattutto quelli scritti in prima persona, che mi sembravano ottimi per comprendere gli altri attraverso la loro stessa voce. Conclusi molto presto che c’erano dei limiti. Il più importante: i personaggi non esistono fuori dal romanzo, e
nemmeno il loro autore li conosce per filo e per segno, dalla nascita alla morte. Questo è ciò che c’è di profondamente vero nella finzione: nessuno può essere conosciuto, se non in parte. Anche qui, dunque, lo stesso problema. Per cosa vale la pena vivere, se si è sempre irrimediabilmente soli? Non lo sapevo; non avevo neppure vent’anni.
Una pausa. Metto giù la penna. La scuola è un ricordo lontano, così come la mia estate nella casa vicino al campanile della chiesa. Ripenso a ciò che ho appena scritto. Forse non esiste la possibilità di un vero dialogo: forse negli altri cerchiamo, ancora una volta, noi stessi. «Non si cerca che questo».
Però c’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni, ed è il fatto che la scrittura ha il potere di unirci. Molti, nei secoli, hanno acceso dei falò sotto la luna, intorno a cui radunarsi: il loro fuoco è perpetuo e di una sostanza sfuggente e allo stesso tempo tangibile; quella delle parole. Gli incontri avvenuti alla luce di questi falò sono tanti e sono preziosi. Quando il narratore trova il lettore, si verifica un fenomeno raro: un essere
umano racconta e si racconta, e un altro ascolta, e in qualche modo capisce, o almeno ne trae qualcosa. Chi ha ascoltato poi parla a sua volta, e così via, anno dopo anno. Ciò che provoca tanta meraviglia nella letteratura è proprio il dialogo. È questo uno dei motivi per cui si scrive: per uscire dalla propria solitudine, per capire se stessi e gli altri. È questo il motivo per cui senza scrivere non vivo.