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Una travagliatissima traduzione

In questa nuova puntata della rubrica La stanza delle meraviglie di C. Pavese, Claudio Pavese ricostruisce la storia della traduzione italiana di Addio alle armi di Ernest Hemingway.

La vicenda legata alla traduzione italiana di Addio alle armi di Ernest Hemingway che vide protagonisti Cesare Pavese e Fernanda Pivano fu per la casa editrice Einaudi decisamente complessa e deludente. 

L’impulso di Pavese

Lo scrittore invitò più volte la giovane appassionata di letteratura americana a dedicarsi all’opera che lui stesso le aveva proposto di tradurre.

In una lettera del 13 febbraio 1943 dice esplicitamente «…Le ho fatto il contratto per Addio alle armi; spero che martedì Einaudi lo firmi, e allora partirà…». Quindi, in una lettera del 25 maggio conferma «… abbiamo avuto l’accettazione per l’Addio…» riferendosi al via libera di Giulio. Poi ancora, il 30 maggio: «… pensi piuttosto a tradurre l’Addio, e con l’assegno si comperi un monopattino…». E di nuovo in una lettera del 24 giugno: «…E l’Addio quando lo traduce? Badi che un bel giorno Le ritoglieremo l’incarico per inadempienza…». Ritorna alla carica il 2 agosto: «… si ricordi di fare Farewell e prefazione Diderot…».

Finita la guerra la musica cambia improvvisamente. Pavese non fa più cenno alla traduzione. Anzi con la sua ultima lettera a Pivano, del 2 febbraio 1946, Pavese tronca così i suoi rapporti con la traduttrice: «Il cordone ombelicale è veramente tagliato. La prefazione [a Storia di me e dei miei racconti di S. Anderson] è bella e “ha stile” – il giudizio non è soltanto mio. Il maestro non ha più niente da fare. Come semplice revisore attende il manoscritto col testo per dare l’ultima occhiata. Poi, buona fortuna nei mari della vita».

Sicuramente il tono gelido è dovuto al secondo rifiuto di Pivano alla sua reiterata proposta di matrimonio. Nel frontespizio di Feria d’agosto lo scrittore indicò le due date in cui aveva manifestato le sue intenzioni alla giovane discepola: 26 luglio 1940 e 10 luglio 1945. Ambedue affiancate da piccole croci per significare i suoi due fallimenti.

Ma le vicissitudini legate alla traduzione in questione non furono solo sentimentali, ce ne furono altre.

La censura

Ricorda Fernanda Pivano nel suo diario che in occasione della retata che i nazisti fecero nel 1944 alla sede Einaudi (retata che portò al successivo commissariamento della stessa da parte dell’RSI) fu scoperto il contratto siglato per la traduzione di Addio alle armi. 

L’opera, censurata dai tedeschi perché “americana”, risultava oltretutto “supervietata” dal Minculpop. In essa si accusavano, senza mezzi termini, i vertici militari italiani che, nel 1917, avevano causato l’ignominiosa disfatta di Caporetto. Inoltre, peggioravano la situazione i numerosi articoli fortemente critici nei confronti di Mussolini che Hemingway aveva pubblicato, a suo tempo, in occasione della presa di potere del fascismo.

E a guaio si aggiunse altro guaio. 

I saccheggiatori confusero il nome della traduttrice e invece di Fernanda lessero Fernando Pivano. A quel punto arrestarono suo fratello (Franco!) che di tutta quella storia non ne sapeva nulla. Lei si precipitò all’Hotel Nazionale in Piazza San Carlo, dov’erano di stanza le SS, e cercò di spiegare l’equivoco e l’estraneità ai fatti del fratello. E nei successivi interrogatori ci mise non poco per convincerli che lei era assolutamente all’oscuro della faziosità dell’autore e ancor più della trasgressività dell’opera; e che ignorava, come collaboratrice occasionale, dove si fosse rifugiata l’intera dirigenza della casa editrice. Fatto sta che dopo lunghi “giri di vite” e fastidiosissime intimidazioni (non sottovalutiamo che Pivano era giovane e avvenente), fu rimessa in libertà ma sottoposta a sorveglianza speciale. 

A questo punto verrebbe da pensare che, cessata la guerra e sconfitto il fascismo, con i suoi ostracismi, divieti e censure, la traduzione potesse essere portata a termine e il libro serenamente pubblicato dall’Einaudi. E invece no. Altre peripezie erano alle porte.

La partita Hemingway

Arnoldo Mondadori e Giulio Einaudi, rifugiati entrambi in Svizzera dopo l’8 settembre 1943, non avevano perso tempo e da quell’esilio forzato avevano acquisito i diritti per parecchie opere di autori americani, primo fra tutti l’ormai mitico autore di A Farewell To Arms.

Iniziò tra i due editori quella che fu poi definita “la partita Hemingway”. Insomma “sgomitando” si spartirono le sue opere. E, guarda caso, Addio alle armi entrò a far parte del “bottino” Mondadori. Mentre Einaudi si aggiudicò La quinta colonna, Fiesta, Avere e non avere, Morte nel pomeriggio (tradotto, poi, proprio da Pivano), I quarantanove racconti, Verdi colline d’Africa e Torrenti di primavera.

Ecco, quindi, che la prima edizione autorizzata di Addio alle armi uscì per la casa editrice milanese agli inizi del 1946 in versione lusso, nella collana Il Ponte, con copertina rilegata e illustrazioni di Guttuso (sovraccoperta compresa). La traduzione fu di Giansiro Ferrata, Pucci Russo e Dante Isella. La sovraccoperta, a tutta immagine, era avvolta da una fascetta volante (oggi ormai rarissima) con titolo e strillo pubblicitario.

Le edizioni pirata

Quella di Mondadori però non risultò essere la prima traduzione del Farewell pubblicata nel nostro Paese.

Nella Roma liberata fin dal giugno del 1944 intraprendenti e disinvolti editori avevano tradotto e pubblicato titoli stranieri (americani, russi, francesi) senza porsi il problema dei diritti d’autore, pur di operare per primi in un mercato finalmente privo di censure e divieti.

E Addio alle armi fu proprio una di queste edizioni che possiamo definire “pirata”. La casa editrice Jandi-Sapi la pubblicò, insieme ad altre, nel dicembre del 1945 con traduzione di Bruno Fonzi, intitolandola Un addio alle armi. 

La traduzione di Pivano, infine

Ma, allora, quando fu dato corso alla pubblicazione dell’opera in questione con la traduzione della Pivano che tanto aveva appassionato e ossessionato Pavese?

Quella versione apparve nel luglio del 1949 nella collana Medusa della Mondadori.

Ma Mondadori non aveva già una traduzione dell’opera a sua disposizione? Perché acquisirne un’altra? Perché quando Hemingway nel 1948 incontrò Pivano a Cortina d’Ampezzo e seppe delle traversie che il suo testo le aveva procurato e della prova di coraggio da lei dimostrata in occasione dell’arresto, volle che la sua, da quel momento in poi, fosse la sola traduzione di A Farewell To Arms autorizzata in Italia. Ecco il perché della nuova versione del 1949. 

E la volontà di Hemingway, quattro anni dopo la morte del grande scrittore, venne ribadita addirittura con “squilli di tromba”. 

Nell’aprile del 1965 esordiva quella innovativa e fortunatissima serie settimanale di bestseller venduti non in libreria ma direttamente in edicola: gli Oscar Mondadori. 

E quale fu il primo titolo a essere pubblicato? Proprio Addio alle armi nella traduzione di Fernanda Pivano, con un riscontro di vendita a dir poco travolgente. Sessantamila copie vendute nel primo giorno d’uscita del libro!

Alla fine di questa travagliatissima vicenda una domanda è doveroso porsi: chissà se l’assegno citato da Pavese per l’acquisto di quel monopattino Pivano lo rimborsò mai all’Einaudi…

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