Dialoghi con Pavese - John Picchione

Dialoghi con Pavese: John Picchione

Cesare Pavese è uno scrittore che ci guida nella complessità del reale: ne abbiamo parlato con il professor John Picchione in questa intervista. 

John PicchioneJohn Picchione insegna letteratura e cultura italiana moderna e contemporanea alla York University di Toronto (Canada). Si occupa di poesia e narrativa del ‘900, movimenti d’avanguardia e teoria della letteratura. Ha pubblicato su riviste ed enciclopedie, tra cui Novecento (Marzorati), Encyclopedia of World Literature, “Il Verri”, “Strumenti critici”, “Studi novecenteschi”, “Otto/Novecento”, “Letteratura italiana contemporanea”, “Forum Italicum”, “Italica”. Tra i suoi volumi, è autore di La scrittura, il cervello, e l’era digitale (Edizioni Università di Macerata, 2016); Dal modernismo al postmodernismo: riflessioni teoriche e pratiche della scrittura (Edizioni Università di Macerata, 2012); The New Avant-Garde in Italy: Theoretical Debate and Poetic Practices (University of Toronto Press, 2004) e Introduzione a Antonio Porta (Laterza, 1995). Ha curato I discorsi della critica in America (Bulzoni, 1993) e co-curato Twentieth-Century Italian Poetry: An Anthology (University of Toronto Press, 1993); Italian Literature in North America: Pedagogical Strategies (Biblioteca Quaderni d’Italianistica, 1990); Edoardo Sanguineti: Literature, Ideology and the Avant-Garde (Legenda/Maney Publishing, 2013). Oltre alla selezione dei testi e al profilo critico in Twentieth-Century Italian Poetry, a Pavese ha dedicato il saggio “Pavese in Canada: esperienze didattiche” in Un viaggio mitico – Pavese intertestuale: alla ricerca di se stesso e dell’eticità della storia (a cura di A. Catalfamo, I Quaderni di CE.PA.M, 2006).

In “Pavese in Canada: esperienze didattiche” lei ha scritto un’interessante riflessione sul ruolo didattico di Pavese, ovvero che giovani studenti italo-canadesi apprezzino tanto La luna e i falò perché ritrovano in Anguilla emigrato le loro vicende famigliari. Sono stato invitato a Toronto nel 2018 per la settimana della lingua italiana nel mondo e si discuteva di come coinvolgere nuovi studenti ora che i legami con l’Italia vengono meno, per cui le chiedo: la situazione è ancora così o la diminuzione dei legami con l’Italia ha reso Pavese meno amato?

La risposta a questo quesito è molteplice: oltrepassa lo specifico insegnamento di Pavese in quanto coinvolge tutto lo studio della letteratura e la cultura stessa. La situazione è cambiata in modo cospicuo. Le società dominate dal capitalismo globalizzato e dalle nuove tecnologie stanno generando, in misura sempre più sostanziale, una riconfigurazione culturale e antropologica che esprime un impoverimento-esaurimento del modello umanistico e dei valori da esso rappresentati. Il canone letterario-umanistico come guida alla formazione delle identità individuali e collettive all’interno dello stato-nazione ha subito una forte emarginazione. Si assiste, tra l’altro, a una grande contraddizione: nel momento in cui le tecnologie digitali rendono l’archivio letterario molto più accessibile, esso stenta a produrre significati e a plasmare nuove versioni del mondo. L’immaginario è oramai colonizzato dalle nuove tecnologie e la cultura mediale disperde le voci che provengono da quell’archivio, depotenziandone gli strumenti interpretativi, le componenti dialogiche e valoriali che una volta costituivano lo spazio entro il quale avveniva la formazione intellettuale ed educativa di giovani e non solo. 

In questo scenario culturale va inserito l’allontanamento dei giovani canadesi di origine italiana dalla cultura dell’emigrazione, oramai venuta a sfuocarsi tramite l’integrazione nella cultura mainstream. Il dramma di Anguilla, letto non tanto come sradicamento dell’essere quanto dell’emigrato, perde un impatto emozionale e di vicinanza memoriale. A questo si aggiunga che le immagini dell’Italia costruite dall’industria culturale (cibo, moda, design, villeggiatura) che bombardano la psiche quotidianamente sono penetrate nell’epicentro del desiderio. Pavese è uno scrittore che costringe a confrontarsi con i demoni esistenziali del vivere e non si accorda con la cultura corporale, della gratificazione immediata e dell’usa e getta. Sicuramente le eccezioni non mancano, ma oggi si fa fatica a insegnare anche scrittori come Leopardi e Montale. Ogni tanto uno studente confessa: “Non ho voglia di leggerli, mi rattristano e io voglio essere felice”.

Nel 1990 ha curato, con L. Pietropaolo, il volume Italian Literature in North America: Pedagogical Strategies. Per quali motivi Pavese può rappresentare un approccio alla lingua italiana insegnata a studenti stranieri?

Quel volume raccoglie gli atti di un convegno del 1989 alla York University a cui parteciparono studiosi italiani e nordamericani, che si proponeva di aggiornare le metodologie critiche in ambito didattico. Si partiva dal presupposto che esisteva uno iato tra gli orientamenti critici nella ricerca e i modi in cui la letteratura era affrontata nelle aule universitarie, ancora troppo tradizionali e legati ad approcci contenutistici e storiografici. Per riparare a quella frattura, i saggi proponevano applicazioni didattiche di procedimenti legati a strutturalismo, semiotica, linguistica, decostruzionismo, sociologia della letteratura, ermeneutica e psicoanalisi. Insomma, si trattava di raffinare gli strumenti pedagogici ai fini di preparare lo studente a intrattenere con i testi letterari un dialogo interpretativo più dinamico e articolato. Rispetto a quegli anni, i mutamenti culturali a cui ho accennato richiedono nuovi aggiornamenti delle pratiche didattiche, tenendo presente che le competenze linguistiche dello studente medio, almeno qui in Canada, sono più povere e limitate. Pertanto, riterrei opportuno che all’interno degli studi di italianistica si promuovessero maggiori iniziative e dibattiti ai fini di affrontare più adeguatamente le condizioni odierne dell’insegnamento della letteratura italiana in Nordamerica. 

Per quanto riguarda Pavese, indubbiamente lo studente deve essere spinto a confrontarsi con le tematiche offerte dalla sua poesia e dalla sua narrativa, sia per rifuggire dalle banalità dei valori culturali dominanti, sia per sviluppare quegli anticorpi necessari per affrontare la maturità: “Ripeness is all”, come ci ricordava lo scrittore in una sua celebre epigrafe shakespeariana. In una prospettiva più propriamente linguistica, Pavese si presta notevolmente all’insegnamento dell’italiano all’estero. La sua scrittura si regge su costruzioni sintattiche lineari e un lessico quotidiano che si configura come abbassamento linguistico nell’ambito letterario. Si aggiunga che i colloquialismi e i regionalismi della sua opera possono introdurre lo studente straniero al colorito locale della lingua e alla varietà straordinaria del parlato rispetto all’italiano standard. In ambito comparatistico, si può indirizzare lo studente verso analisi interlinguistiche di questi tratti del linguaggio di Pavese e gli esiti letterari adottati dagli scrittori americani da cui Pavese attinge anche tramite il suo lavoro di traduttore.

Nell’antologia Twentieth-Century Italian Poetry: An Anthology, da lei curata con L. R. Smith nel 1993, ha inserito Pavese nella sezione “Poets of Realism and Ideology”. Eppure, Pavese si definì sempre un impolitico e la sua poesia non contiene riferimenti diretti alla politica. Come mai questa scelta? 

Pavese realizza e anticipa una forma di poesia-racconto di cui l’antologia verifica la presenza in poeti della generazione successiva. La selezione di testi come I mari del Sud, Pensieri di Deola, Atlantic OilEstate di San Martino privilegia e avvalora questa tendenza che sicuramente rimane il contributo fondamentale di Pavese al rinnovamento del linguaggio poetico. La creazione di personaggi che si aggirano nella concretezza del quotidiano in situazioni di emarginazione, o come derelitti sociali, non può essere affidata a una lettura esclusivamente esistenziale. Essa affonda le sue radici in uno sguardo politico sul sociale, sulle condizioni di vita dell’alienazione urbana (operai, prostitute, ubriaconi), ma anche nel duro lavoro e nelle esclusioni osservate nella campagna delle Langhe dove i contadini faticano nelle loro attività. Il racconto poetico costruito attraverso la lente del realismo subisce la trasfigurazione archetipica della dimensione mitica, ma questo effetto non contraddice la spinta innovativa delle forme poetiche sorrette dall’adozione della poesia-racconto. Del resto, anche romanzi come Paesi tuoi e La casa in collina, Il compagno e La luna e i falò inglobano una dimensione politica incentrata su problematiche che vanno dai drammi delle classi sociali disagiate a quelle dell’impegno politico, ai conflitti ideologici connessi con la storia di quel periodo. Pavese non è politicamente svincolabile dalla cultura antifascista. Messa a confronto con il lirismo, i preziosismi linguistici, l’estetica dell’opacità e del linguaggio analogico-metaforico dominante in quegli anni, non è difficile constatare come l’incontro della poesia con la prosa, sotto forma di narrazione, rappresenti in Pavese una componente abbastanza singolare all’interno della cultura poetica coeva. La collocazione della sua poesia nella sezione di realismo e ideologia, e le conseguenti scelte antologiche, non negano la presenza della dimensione lirica già presente nella prima raccolta, e soprattutto negli sviluppi successivi. 

Il problema è questo: le poesie liriche di Pavese entrano nell’orizzonte critico non per una loro rilevanza al livello delle forme o della sperimentazione poetica, quanto per un loro inserimento nella cornice generale di Pavese scrittore. Prese autonomamente sono, malgrado tutto, meno probanti da una prospettiva propriamente critica. All’interno dei linguaggi poetici del primo Novecento, la poesia-racconto di Pavese ricopre una rilevanza molto più significativa rispetto alla componente lirica. Essa stabilisce un notevole antecedente di un filone poetico che prenderà corpo nel dopoguerra: si pensi a certi esiti della poesia di Pasolini o di Pagliarani.

Recentemente, alcuni studiosi si sono chiesti se Pavese fosse un modernista oppure no. Quali possono essere, a suo parere, le direzioni di una futura ricerca che sappia mantenere la rilevanza di Pavese nell’ambito della letteratura, italiana ma anche europea e – soprattutto – globale?

Nel mio libro Dal modernismo al postmodernismo ho sostenuto che le pratiche letterarie della modernità possono esprimere visioni di verità liberate dalle contraddizioni o di un soggetto costruito sotto il segno dell’autenticità. Si tratta, tuttavia, di versioni che fanno parte dell’ordine del possibile e mai prospettate come conquiste assolute. Il modernismo è segnato da tensioni verso un mondo altro ma vive la drammaticità e la dimensione tragica del presente. Il problema sorge nella misura in cui il “post” del postmodernismo non è identificato con un “dopo” (paradigmatico in questo senso il pensiero di Lyotard), ma con momenti postmoderni recuperabili all’interno della modernità. Orientato a delegittimare principi di verità, conoscenza, universalità, il postmodernismo celebra il relativismo e le antinomie irrisolvibili, la frantumazione di ogni fondamento e l’eccitazione di una cultura post-umanista e post-illuminista. Queste tendenze scadono nel tentativo di adottare il modello postmoderno in una prospettiva trans-storica ai fini di condurre riletture in chiave postmoderna di tanta letteratura in cui il principio di contraddizione non si estingue mai completamente o il reale è vissuto all’insegna del dubbio o dell’illusione. A questo punto non è impossibile rileggere Petrarca in prospettiva postmoderna: un soggetto affetto dall’accidia e pertanto impossibilitato a rimuovere dicotomie e contraddizioni dell’esistere, dimenticando che le antinomie sono vissute all’insegna della melancholia e della tristizia e non come celebrazione di differenze liberatorie. Inoltre, il postmodernismo è incline a edificare, in modo incauto e abusivo, una modernità fondata su un soggetto stabile e sicuro per poi poterlo comodamente decostruire. 

Venendo a Pavese, mi sembra innegabile che la sua opera non sia disgiungibile dall’angst modernista e dal senso del tragico. All’interno del modernismo, essa si configura come reazione alle condizioni materiali e psicologiche generate dalla tarda modernità. Se si escludono gli slanci fiduciosi nella tecnologia e negli sviluppi urbani avanzati dal futurismo, il modernismo esprime una distanza critica nei confronti del moderno ed esplicita tensioni e conflitti che sono propri di tutta la produzione di Pavese. Non è possibile identificare un modernismo legato allo spirito illuminista di progresso o a una nozione di soggetto fondato su solide certezze. Pavese vive la dolorosa coscienza dei mutamenti incessanti e dell’estraneità a cui il reale sottopone, il mancato rapporto tra io-altro e il sentirsi soli, la labilità del tempo e il fluire del tutto verso una fine individuale, le inquietudini per una storia collettiva che non trova facili possibilità di riscatto. La mutilazione del futuro è un tratto che pervade essenzialmente tutta la letteratura del tardo modernismo. Ne Il grande Gatsby (1925), Fitzgerald, frequentato da Pavese, dimostra non solo un presente perseguitato da un passato irrevocabile, ma da un futuro incenerito. La “valle delle ceneri” è emblema di una modernità i cui sogni e progetti si dileguano nel nulla, miti e speranze personali e sociali bruciano ineluttabilmente. Il consumarsi dei progetti individuali e collettivi, trasposti in immagini di materia polverizzata, in fumo, incenerita, trovano un corrispondente ne La luna e i falò, anche se in parte attutite dall’atemporalità mitica del ritorno e della ripetizione. Simili prospettive sono ravvisabili, ad esempio, anche in un romanzo come L’urlo e il furore (1929) di Faulkner. 

La ricerca dei legami tra Pavese e la letteratura americana è stata sollecitata in particolare dall’attività di Pavese come traduttore di grandi opere di quel filone narrativo dei primi decenni del Novecento. Questo aspetto dovrebbe essere approfondito ulteriormente, al di là delle affinità incentrate sul realismo. Infatti, non mi sembra siano state adeguatamente studiate le connessioni tra le tematiche letterarie pavesiane e la trasfigurazione mitica degli svolgimenti narrativi ad impronta realistica nella letteratura europea. 

Lei ha pubblicato La scrittura, il cervello, e l’era digitale. Pavese è stato al centro di alcuni esperimenti di social reading su Twitter organizzati da TwLetteratura (#LunaFalò e #Leucò), volti a ripensare il ruolo dei social network per l’apprendimento e la didattica. In che modo gli strumenti digitali possono aiutare ad avvicinare Pavese agli utenti pubblico dei social network?

In quel libretto ho assunto una posizione molto critica nei confronti delle tecnologie digitali in ambito didattico. Ho cercato di evidenziare i modi in cui le nuove tecnologie frantumano la logica lineare, il pensiero sequenziale e le abilità analitiche della cultura alfabetica. La tecnica non è uno strumento che noi adoperiamo, rimanendo da essa autonomi. Mi sono rifatto alla nozione heideggeriana di “Gestell”, secondo la quale la tecnica è l’orizzonte all’interno del quale incontriamo il mondo e, in sostanza, noi stessi. Potrei anche aggiungere le acute riflessioni di Günther Anders: il problema non è l’abuso del mezzo tecnologico quanto l’ontologia stessa della tecnica che ci asservisce e ci assoggetta, trasformandoci in una sua appendice. Fatte alcune distinzioni, si tratta di posizioni non troppo lontane da quelle dello stesso Marshall McLuhan. L’interiorizzazione delle nuove tecnologie riconfigura il sistema neuronale e crea uno stato di narcotizzazione che costruisce un soggetto affetto da molteplici patologie, disturbi associativi, deficit di attenzione e depersonalizzazione. I social network non possono essere svincolati dalla logica dell’intrattenimento e della dimensione ludica che li sottende. Oggi si soffre di un sovraccarico di informazioni che genera la convivenza simultanea e indiscriminata di opinioni che tendono a confluire nel calderone del relativismo: viviamo nella cosiddetta epoca della post-verità in cui si divora e si mercifica ogni forma di comunicazione. 

Per queste ragioni, non credo che i social network aiutino a generare un salutare incontro con la letteratura; anzi, sono essi che hanno spinto la letteratura e la cultura umanistica verso zone periferiche. La lettura di testi letterari richiede raccoglimento, silenzio, dialogo interiore, riflessione. Pavese va innanzitutto masticato lentamente. Egli ci propone di affrontare drammatiche condizioni del vivere: solitudine e sradicamento dal mondo, disperazioni sociali e precarietà dei rapporti umani, disfacimento della Storia, annientamento del tempo e tentativi di recuperare il ciclo della ripetizione mitica dell’essere. Se le pratiche didattiche falliscono ad aprire un dialogo con questi quesiti, sicuramente non saranno i media digitali, governati da rapporti disincarnati e processi di velocizzazione e anonimato, a porre riparo alla condizione culturale in cui versiamo. Questo non è un giudizio sui casi specifici della domanda. Nutro i miei dubbi su queste iniziative, nella misura in cui sono inserite negli orizzonti della tecnologia cui ho fatto riferimento. 

Nondimeno, da un punto di vista qualitativo, devo ammettere che le differenze esistono anche nell’ambito delle nuove tecnologie. Il problema è comunque sempre di ordine strutturale, di una comunicazione inserita in un determinato sistema. La scuola dovrebbe rimanere il centro vitale degli spostamenti culturali; oggi essa si ritrova sommersa da quel sistema e corre il rischio di diventarne una copia, un derivato, sprovvista di una seppur minima autonomia, incapace di generare strategie proprie, creative, alternative rispetto all’ipertesto informatico.

Un Pavese ci vuole: parafrasando un celebre passo de La luna e i falò, questo è il titolo di una serie di video-interviste dedicate a Pavese che ho fatto al direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. A settant’anni dalla sua morte, secondo lei un Pavese ci vuole ancora? E perché?

Pavese ci vuole, soprattutto in tempi come questi. Oggi le spinte culturali tendono a bloccare gli interrogativi esistenziali e occultare la nostra finitudine. Le distrazioni e la corsa al soddisfacimento di desideri costruiti dal potere mediatico del capitalismo globalizzato spingono alla repressione di tutto ciò che può causare angst e sconvolgimenti emozionali. Da un lato, si viene a costruire un soggetto infantile e svuotato di significati del vivere e, dall’altro, si assiste alla continua ricerca di medicamenti fatti di stordimenti elettronici, stupefacenti, appagamenti epidermici con cui trastullarsi. Il soffocamento di interrogativi profondamente umani e l’assenza di sostanziosi significati di vita richiedono riflessioni come quelle offerte da uno scrittore come Pavese. 

La sua opera ci pone di fronte alla finitudine e alla non-permanenza, all’assenza di una “casa” dell’essere e alla scomparsa dell’altro che inevitabilmente vengono a plasmare le nostre esistenze. Pavese ci costringe a fare i conti con le ferite inflitte dal tempo, segnato da lutti e distruzioni, da uno scorrere che brucia il presente e incenerisce il passato. Allo stesso tempo, egli ci ricongiunge a significativi archetipi umani del permanente e dell’immutabile, di ciò che resta oltre il perire del nostro mondo individuale. Solitudine e necessità di comunicazione, dimensione della natura e rituali umani, eventi della storia e risposte individuali e sociali sono tutti motivi che segnano la poesia e la prosa di Pavese. Soprattutto per i giovani studenti, essi costituiscono stimoli preziosi per misurarsi con le questioni che gravano sul mondo di oggi e a sollevare dubbi sui sistemi di valori e sugli stereotipi sociali.

Intervista a cura di Iuri Moscardi
Immagine di copertina: Ernesto Treccani, “Il valino” (particolare)

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