Dialoghi con Pavese - Marie Fabre

Dialoghi con Pavese: Marie Fabre

Tradurre perché un testo possa continuare a viaggiare: leggi l’intervista alla professoressa Marie Fabre, autrice di una recente traduzione in francese dei Dialoghi con Leucò.  

Marie Fabre - Dialoghi con PaveseLa professoressa Marie Fabre insegna all’Ecole Normale Supérieure di Lione. Ha ottenuto un dottorato in studi italiani tra Grenoble, Parigi e Pisa (in cotutela con Christophe Mileschi e Carla Benedetti) studiando, per la sua tesi, un tipo di argomento tuttora di grande interesse per lei, cioè l’articolazione tra letteratura e politica nell’opera di classici del Novecento (Vittorini, Calvino e negli ultimi anni anche Pasolini e Morante, soprattutto). Da sempre appassionata di scrittura e traduzione, negli anni del dottorato ha pubblicato due traduzioni di Amelia Rosselli, mentre successivamente ha tradotto Vittorini, Pasolini, Volponi e Moresco in progetti collettivi. Ricerca e traduzione sono per lei due attività parallele, distinte, che però si nutrono costantemente l’un l’altra: anche se il lavoro universitario è complesso, rimane convinta che si tratti di un equilibrio tra ricerca, traduzione e scrittura, tre facce di un’unica passione. Nel 2021, ha tradotto in francese Dialoghi con Leucò con il titolo Dialogues avec Leuco (edizioni Trente-Trois Morceaux).

Come mai hai scelto di tradurre proprio Dialoghi con Leucò?

In realtà, questo libro non l’ho scelto io, ma ho a volte avuto l’impressione che mi abbia scelto lui. Quando ho scoperto da studentessa, nei corsi di Bazzocchi a Bologna, i Dialoghi con Leucò, come facevo spesso all’epoca con tutti i testi che mi affascinavano ho cominciato a tradurne dei pezzi. Ricordo in particolare di essermi innamorata de La belva, e di averci lavorato un bel po’, per me stessa, per così dire “gratuitamente”, senza badare alle traduzioni già esistenti, anche perché stavo in Italia. Quattro o cinque anni dopo, sono stata contattata da una coreografa per tradurre alcuni dialoghi per uno spettacolo di danza contemporanea, ma dopo averci lavorato di nuovo non mi sentivo pronta, non ero sicura di quel che potevo veramente creare con quella traduzione, e la cosa non andò in porto. Qualche anno dopo ho incontrato Paul Ruellan e Vincent Weber, gli editori delle Editions Trente-Trois Morceaux. Fanno un lavoro molto bello e mi hanno chiesto se fossi d’accordo a tradurre questo testo che era stato per loro uno choc di lettura. E, di nuovo, ho esitato un bel po’: sono un testo per tanti versi così difficile, così impressionante, ed era la prima volta che mi si chiedeva non di tradurre, ma di ritradurre, che sono due cose diverse, perché ci vuole una proposta nuova quando si ritraduce un testo. Non ho accettato finché non ho visto disegnarsi nella mia mente questa proposta.

Ci sono state altre traduzioni in francese dei Dialoghi con Leucò? Quali differenze ci sono tra quelle e la tua?

Prima della mia, ci sono state due traduzioni dei Dialoghi, la prima di André Coeuroy e la seconda di un gruppo di traduttori diretto da Mario Fusco. E poi ci sono i sottotitoli dei film di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, che non vanno dimenticati. Per me, ognuna delle due traduzioni in volume ha i suoi pregi e le sue mancanze, come del resto la mia. Nessuna traduzione è sbagliata o superflua: semplicemente, in questo caso c’era spazio per qualcos’altro, e con un testo del genere sicuramente ce n’è e ce ne sarà ancora! Quella di Coeuroy ha un certo fascino, riesce a creare qualcosa dal punto di vista poetico, ma purtroppo ci sono anche alcuni errori a livello di significato, passi poco chiari. Quella di Fusco è il frutto di anni di lavoro collettivo, con alcuni grandi nomi dell’italianismo francese: è molto coerente, in ogni punto corretta, ma ho sempre avuto l’impressione che perdesse un po’ della poesia e del mistero del testo. La mia diagnosi iniziale è stata questa: la lingua di Pavese era resa, in queste traduzioni, in modo troppo classico, e questo finiva con un appiattimento involontario della stranezza di questa lingua – dei diversi registri, livelli linguistici, accenti, folgorazioni improvvise, versi nascosti, che compongono una lingua solo in apparenza monotonale, monolitica. Ho cercato di creare uno spazio sia per le soluzioni più ardite a livello poetico, sia per una ricerca più “moderna” sul parlato come viene integrato alla prosa molto alta di questo testo. La differenza con le altre traduzioni si sprigiona a partire da un lavoro molecolare sul testo: era anche molto importante per me non voler a tutti i costi fare una cosa diversa dai precedenti, distorcendo o forzando il testo per fare una traduzione originale,  cercare di distinguermi. Insomma, è sempre una questione di giustezza, di ricerca della posizione, dello scarto e della lingua giusta.

Dialoghi con Leucò è il libro che Pavese amava di più e che i critici capirono meno, nel 1947. Qual è stata la ricezione di questo libro e di Pavese, in Francia, negli anni?

La ricezione è stata molto povera, perciò questa nuova edizione aveva anche un senso. Prima di tutto bisogna dire che il libro non si trova: la prima edizione di Gallimard, quella di Coeuroy nella famosa “collection blanche” è esaurita da tempo e non è mai stata ristampata, né il libro è stato pubblicato in tascabile. La traduzione di Fusco si trova nel “Quarto” di Pavese, cioè in un volume curato da Martin Rueff pochi anni fa, che contiene gran parte dell’opera pavesiana. Certo ci sono stati alcuni studiosi francesi che ne hanno parlato (a cominciare da quel gruppo di traduttori che ha lavorato all’inizio degli anni ‘90), ma rimane di sicuro il testo meno letto di Pavese in Francia, e non è per niente noto al pubblico anche colto. In Italia, credo che gli studi su Pavese e il mito abbiano conosciuto una svolta (anche se non proprio recente) con gli studi di Furio Jesi, che hanno poi influenzato a lungo la critica, ma in Francia neanche Jesi è tradotto, o quasi. Però i pochi lettori francesi che ho incontrato e che quasi per caso si erano imbattuti in questo libro ne sono spesso rimasti travolti. Sinceramente, a me con una traduzione importa soprattutto questo, più che una ricezione in senso critico: che il testo possa arrivare in nuove mani, viaggiare di più.

Come hai lavorato alla traduzione: è stato un lavoro lungo e faticoso? Quali risorse ti sono state d’aiuto?

È sempre difficile, e spesso noioso, parlare del lavoro concreto della traduzione. Sì, è stato molto lungo. Come ho detto, una parte importante del lavoro in questo caso è venuta prima ancora di lanciarmi nella traduzione: decidere che fare, immaginare e desiderare i Dialoghi in francese sotto una nuova forma. Il lavoro di lettura dell’opera di Pavese l’avevo già fatto negli anni precedenti. Ho anche messo il testo nel programma dei miei corsi di letteratura, ci ho riflettuto e l’ho riletto con e per gli studenti, anche con un workshop di traduzione all’università Paris 8. Mi piace sempre, quando devo tradurre un testo, confrontarmi con sguardi diversi su di esso – almeno in un primo tempo, perché poi devo pur scegliere, chiudere le possibilità, cristallizzare una lettura. Sulla fase di “scrittura” non saprei proprio che dire, si lavora e basta. Poi la cosa si riapre nella fase delle riletture. Ho fatto leggere alcuni dialoghi a diverse persone, con ogni volta domande specifiche: uno sguardo delle amiche antichiste sui nomi propri degli dèi e delle dee, lo sguardo del mio compagno che è storico e letture più “letterarie”, una di un italianista e una come al solito di qualcuno che non conosce l’italiano. E questo prima ancora del lavoro editoriale. La cosa che mi intimidiva di più non era la difficoltà del testo a livello stilistico e poetico ma il lato culturale, la cultura classica che mi mancava, la paura di perdere o di fraintendere dei significati: è lì che ho dovuto fare il lavoro di documentazione più importante.

Dopo averli letti e tradotti, hai un dialogo preferito?

È una bella domanda, perché la forza dei Dialoghi è questa: è un libro sul quale torno da almeno 15 anni e a ogni fase della mia vita mi ha parlato in modo diverso. È un testo talmente ricco, per le situazioni esistenziali e il materiale simbolico che mette in gioco, che uno ci si può rivolgere sempre, e se il mio dialogo preferito è stato La belva da giovane, in questo momento la mia preferenza va a Schiuma d’onda. L’anno scorso, quando è morto un mio caro amico, I due è il testo che mi ha accompagnata di più. Quando presento il libro agli studenti, cerco anche di far capire questo: il testo può sembrare ostico (del resto il pubblico francese spesso non ha la stessa cultura classica del pubblico italiano, né lo stesso legame affettivo con essa), ma può anche parlare molto direttamente, toccare corde intime e sempre nuove se uno si lascia andare a una certa lettura. La cosa bella della traduzione è che mi ha permesso di soffermarmi su dialoghi che forse avevo sempre soltanto sfiorato, che non erano stati “i miei dialoghi”: e mi sono presa di passione per il nucleo centrale dei dialoghi “etnologici”, L’uomo-lupo, I fuochi e L’ospite, che sono anche molto interessanti dal punto di vista linguistico-stilistico, e quindi per la traduzione.

“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da un famoso passaggio de La luna e i falò come titolo di una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Settantadue anni dopo il suicidio di Pavese, abbiamo ancora bisogno di lui? Perché?

Mi sembra di averlo appena detto nella risposta precedente. Oggi, si vede che abbiamo ancora bisogno di lui perché anche sui social centinaia di giovani ne parlano appassionatamente, si scambiano citazioni, letture – so che tu, Iuri, hai lavorato su questo fenomeno e lo trovo molto importante e significativo, perché un’opera letteraria deve appunto viaggiare, incontrare nuove situazioni storiche, linguistiche, esistenziali – e questa si vede che regge la prova malgrado gli alti e bassi della fortuna critica in senso accademico. Da quello che dico qui, si capisce che mi piace Pavese anche per questo: parla agli adolescenti, lo si può avvicinare con uno sguardo fresco, con una lettura immediata, cioè sensibile-soggettiva, ma si può anche passare degli anni a studiare il suo spessore culturale, le sue fonti, a capire il suo percorso, a entrare anche nel suo dramma. Sarà banale ripeterlo, ma proprio per queste molteplici possibilità di lettura e di compagnia, Pavese rimane un classico, e cioè con lui, per dirlo con Calvino, “al di là della pagina continua il mondo”.

Intervista a cura di Iuri Moscardi

 
 
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