Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato Monica Lanzillotta, di cui è da poco uscito Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo.
La professoressa Monica Lanzillotta insegna Letteratura italiana contemporanea presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria. I suoi interessi di ricerca sono la letteratura moderna e contemporanea e alcuni settori come la persistenza della tradizione classica nel Novecento, la letteratura fantastica, la letteratura teatrale, il rapporto tra musica e letteratura, che ha studiato grazie a documenti inediti conservati presso gli archivi pubblici e privati. A Cesare Pavese ha dedicato numerosi articoli e i volumi Bibliografia pavesiana (1999), la prima raccolta completa di opere di e su Pavese; La parabola del disimpegno. Cesare Pavese e un mondo editoriale (2001); e il recente Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo, uscito per Carocci nel 2022.
A Cesare Pavese lei ha dedicato moltissimi studi (articoli, libri, recensioni). Come è nata questa attrazione verso la sua opera?
Ho letto e amato le opere di Cesare Pavese appena adolescente e per questo ho voluto scrivere su di lui la mia tesi di laurea nel 1992, un periodo in cui l’interesse per lo scrittore pareva andare scemando. Poi ho continuato a studiare Pavese, attratta dal suo lavoro di editore e di traduttore e dai Dialoghi con Leucò: meditazioni che ho convogliato, dal 1995 al 2023, in libri e articoli, pubblicando nel 1999 la prima bibliografia sull’intellettuale piemontese (Bibliografia pavesiana) e organizzando nel 2011 un convegno (Cesare Pavese tra cinema e letteratura).
A sedurmi è stata da sempre la poetica, riassumibile nel termine “mostruoso” con cui nell’antica Grecia veniva definito l’ibridismo, ossia la compresenza dei contrari. Per esempio, in una meditazione diaristica datata 24 febbraio 1947, stilata pensando ai Dialoghi con Leucò, Pavese scrive: «L’età titanica (mostruosa e aurea) è quella di uomini-mostri-dèi indifferenziati. Tu consideri la realtà come sempre titanica, ossia è caos umano-divino (=mostruoso), ch’è la forma perenne della vita». La semantica basilare dell’universo pavesiano è costituita dai due poli di infanzia e adultità, a cui sono correlate rispettivamente le parole-satellite campagna/titanico-dionisiaco/“prima volta” e città/olimpico-apollineo/“seconda volta” che, più che contrapporsi, sono compresenti (l’infanzia nella maturità, la campagna nella città, ecc.) sin dalle prime prove poetiche e narrative. La predilezione pavesiana per il mostruoso si traduce, a livello tematico, nella scelta della soglia, della barriera e delle identità ibride (ricorrono nelle sue opere esseri fitomorfi, teriomorfi, uomini femminei e donne mascoline), e a livello formale nell’uso di metafore antropomorfiche e sinestesie.
A conquistarmi sono stati anche gli ingredienti strutturali della sua prosa e poesia, che rimarcano la distanza dal Neorealismo e dall’Ermetismo imperanti negli anni in cui lo scrittore opera: Pavese rinuncia infatti alla descrizione oggettiva e all’azione (raccontare cosa fa il personaggio), rinuncia a creare personaggi e fa diventare oggetto del suo narrare il ritmo della vita
interiore nel suo “farsi” (il flusso di coscienza). Le trame di Pavese sono povere di fatti e azioni, sono basate su alcuni ingredienti strutturali: le immagini-racconto (legando tra loro le immagini, il lettore scopre la trama simbolica, che è un racconto dentro il racconto), gli epiteti, che a loro volta sono racconti dentro il racconto e alludono alla realtà segreta del personaggio, e il dialogo (Pavese si sofferma in molte pagine del diario a meditare sull’arte drammatica, specie quella dei tragici greci, di Shakespeare e del cinema). Per lo scrittore l’arte ha origini magiche e rituali e le sue opere sono perciò caratterizzate, come fiabe, leggende e miti, da ambientazione sommaria, dialogato scheletrico e simmetrie, ritorni, ripetizioni, come nel nuoto. Il protagonista delle trame pavesiane è impegnato nel recupero memoriale dell’infanzia e nella presa di coscienza del destino: capisce chi è ripercorrendo le tappe fondamentali della sua infanzia e adolescenza, illuminando il presente attraverso il riemergere del passato.
Il suo ultimo libro, Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo, è uno studio completo dell’opera pavesiana attraverso le due categorie di Dioniso (la fanciullezza, l’irrazionalità) e Edipo (la maturità, il destino). Come mai ha scelto proprio queste due categorie?
La poetica pavesiana si fonda su due poli: infanzia e adultità. L’infanzia è il periodo della mentalità primitiva, lo spazio primordiale delle origini dove il bambino vive mescolato al mondo animale e vegetale senza “contrasto”. L’infanzia è l’età dell’istintivo-irrazionale in cui si impara a conoscere il mondo assorbendolo verginalmente, fissandolo in immagini (collina, casa, albero, ecc.) che costituiscono gli “stampi” della conoscenza. Per lo scrittore la volontà dell’adulto è condizionata dalle decisioni prese dal bambino in stato di irresponsabilità: l’infanzia si pone dunque come periodo di predeterminazione del destino. Le opere di Pavese sono incentrate sul riemergere delle origini (la “prima volta”), superate e rimosse, e sul ritorno (la “seconda volta”) che serve a comprendere chi si è. L’intera opera di Pavese ruota intorno all’indagine conoscitiva che porta progressivamente il personaggio a riconoscere il destino, la forza inconscia che lo sospinge in una sola direzione, verso le origini.
I miti sottostanti alle storie di Pavese sono quelli di Dioniso, che rappresenta lo stato costitutivo dell’infanzia, il caos indifferenziato, il mostruoso perché nel dio convivono i contrari e i generi (è al tempo stesso dio e uomo, uomo e donna, animale e pianta, ecc.), e di Edipo celebrato da Sofocle, che scopre di essere diventato parricida-regicida e di aver sposato la madre Giocasta come destino (tutto era stato stabilito nella sua infanzia). Ho scelto Dioniso e Edipo per rappresentare la parabola della poetica pavesiana perché Pavese aveva letto e tradotto classici greci e latini e anche a essi si appoggia per trovare conferme alla sua poetica del mito: i testi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Pindaro, Platone, Erodoto e Tucidide presenti nella sua biblioteca sono annotati fittamente e la maggior parte dei segni di lettura riguarda passi al cui centro è il tema del destino.
La sostanziale importanza della letteratura classica viene sottolineata da Pavese nella celebre Intervista alla radio quando, parlando di sé in terza persona, dirà: «Prima che italiane le sue letture sono classiche e poi sovente straniere. Pavese ritiene massimi narratori greci Erodoto e Platone (a proposito egli non fa differenza tra teatro e narrativa) […], scrittori che mirano non tanto al personaggio […] quanto al ritmo degli eventi o alla costruzione intellettualistico-simbolica della scena».
Nell’introduzione al volume lei scrive che Pavese sfugge a ogni etichetta letteraria: semmai, potrebbe “essere collocato nella più ampia categoria del modernismo”. Credo che gli studi sul Pavese modernista potrebbero riservare le scoperte più interessanti: quali sono gli aspetti modernisti di Pavese e perché finora non è stato studiato in quest’ottica?
Pavese, rispetto agli scrittori suoi contemporanei, sfugge a ogni collocazione nel territorio letterario del primo Novecento: si mantiene lontano sia dall’ideologia progressista (Neorealismo), la cosiddetta letteratura dell’engagement, sia dall’esasperato soggettivismo delle avanguardie. Può essere considerato scrittore modernista perché la sua poetica è punto di confluenza di diverse tradizioni, dai classici greci e latini alla moderna letteratura anglo-americana, dall’etnologia alla psicoanalisi, che vengono
fatte confluire in un sistema di pensiero che non prevede il rispetto per le appartenenze culturali. Pavese innova generi letterari e procedimenti narrativi attraverso l’impiego delle tecniche del teatro e del cinema (è maestro del dialogo drammatico) e dei linguaggi universali del mito, dei vestiti e dei fiori.
Nel libro, riguardo a molte opere di Pavese lei usa la categoria di “romanzo di famiglia”. In cosa consiste e per quale motivo si adatta bene a tante opere pavesiane?
Il “romanzo di famiglia” è genere letterario che ha avuto molta fortuna sia nella letteratura classica sia in quella moderna. Basti ricordare, tra le opere amate da Pavese, le tragedie greche che hanno narrato il mito di Edipo connesso alla saga dei Labdacidi, I fratelli Karamazov di Dostoevskij, I Buddenbrook di Mann e Furore di Steinbeck. Anche Pavese ricostruisce la storia di alcune famiglie attraverso più generazioni, posizionando la lente d’ingrandimento sul rapporto tra parenti, a partire dai Mari del Sud, lirica intessuta sul rapproto tra l’io narrante, suo cugino e altri antenati. Come ho cercato di spiegare nel libro, possono essere definiti “romanzi di famiglia” in particolare Il diavolo sulle colline, Tra donne sole e La luna e I falò. In quest’ultimo, considerato il capolavoro di Pavese, il problema dell’identità è il cuore tematico del romanzo perché il trovatello Anguilla, alla ricerca dei suoi genitori naturali, intreccia la sua storia con quella di altre cinque famiglie: la famiglia di Virgilia e Padrino (suoi genitori adottivi), che hanno due figlie (Angiolina e Giulia); quella di sor Matteo, che ha avuto dalla prima moglie due figlie (Irene e Silvia) e dalla seconda una (Santina); quella di Nuto, che ha seguito le orme del padre facendo anche lui il falegname e mettendo su famiglia; quella del Cavaliere, segnata dal suicidio del figlio; infine quella del Valino, che ha come figlio Cinto, avuto dalla moglie Mentina morta poco dopo il parto, e convive con la suocera e Rosina, con cui ha una relazione incestuosa in quanto sorella di Mentina.
Questo libro analizza tutta la produzione pavesiana. Nel suo saggio in Cesare Pavese Mytographer, Translator, Modernist, che ho curato, ha analizzato la figura della prostituta nell’opera di Pavese. Molti studi sull’autore non si focalizzano su un solo libro ma su tutta l’opera. È Pavese un autore che può essere compreso solo se analizzato integralmente? Possiamo separare la sua vita dalla sua opera?
Pavese può essere compreso meglio se si legge tutto perché rientra a pieno titolo in quello che Lejeune definisce “spazio autobiografico” in quanto ha costruito la sua immagine di uomo e scrittore attraverso tutti i testi scritti nel tempo (dalle scritture private a quelle creative). Questi testi presi a uno a uno non hanno fedeltà autobiografica ma attraverso i giochi reciproci, nello spazio loro destinato, definiscono l’immagine di Pavese senza ridurne la complessità né fissarla definitivamente. Pavese poi teorizza la “monotonia” (Raccontare è monotono è il titolo di uno dei suoi saggi più noti) perché i temi cardinali della sua poetica sono presenti sin dalla produzione giovanile: lo scrittore non fa che staccare “pezzi” dal grosso monolito e studiarli sotto tutte le luci possibili. Pavese è un irriducibile cultore della monotonia come la condizione di ogni validità e sincerità, pertanto occorre
leggere tutte le sue opere per comprenderlo in profondità.
Anche la figura della prostituta è un tema monotono perché è presente in tutta la produzione, dalle poesie giovanili fino a La luna e i falò, come ho cercato di dimostrare appunto nel saggio The «donne vestite per gli occhi» in Cesare Pavese’s Creative Production. Nel tratteggiare la prostituta Pavese sembra subire il fascino delle Fleurs du Mal di Baudelaire (tra l’altro traduce l’Idéal delle Fleurs du mal nel maggio del 1928) e di Pianissimo di Camillo Sbarbaro, e sui rapporti intercorsi tra i due poeti ho discorso in un saggio pubblicato nel 2017, in cui ho pubblicato anche dei carteggi inediti.
“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da un famoso passaggio de La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Settantatré anni dopo il suicidio di Pavese, abbiamo ancora bisogno di lui? Perché?
Abbiamo bisogno di Pavese perché è un “classico” e i classici non smettono di parlare agli uomini di tutto il mondo. La fama di Pavese si è infatti diffusa a livello internazionale: lo scrittore è stato tradotto e studiato in Paesi lontani dalla cultura italiana ed è penetrato nell’immaginario collettivo anche attraverso la cultura cinematografica e musicale perché ha impiegato nelle sue trame creative, come ho cercato di spiegare nel mio libro, i linguaggi universali della mitologia, degli abiti, dei fiori.
Dialoghi con Pavese: Nino Arrigo
Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato Nino Arrigo, che da anni si occupa del mito in relazione alla letteratura e all’arte.
Dialoghi con Pavese: Julianne VanWagenen
Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato la ricercatrice Julianne VanWagenen a proposito dei suoi studi sull’Antologia di Spoon River.
Dialoghi con Pavese: Sara Vergari
Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato la ricercatrice Sara Vergari, autrice del saggio Un “Pavese solo”.