Dialoghi con Pavese - Federica Di Blasio

Dialoghi con Pavese: Federica Di Blasio

Sradicamento, migrazione e traduzione nell’opera di Cesare Pavese: per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato la ricercatrice Federica Di Blasio.

Federica Di Blasio - Dialoghi con PaveseFederica Di Blasio ha ottenuto il suo dottorato di ricerca in italiano alla University of California, Los Angeles nel 2020 e lavora come Visiting Assistant Professor di italiano all’Hamilton College, nello Stato di New York. La sua carriera di ricercatrice è iniziata in Italia e in Francia, dove ha lavorato sulla traduzione letteraria. Si è anche interessata a un approccio sociologico alla letteratura, in particolare dopo aver seguito un corso sulle narrative della migrazione con Fulvio Pezzarossa all’Università di Bologna. La sua tesi di dottorato si intitola Local/Global Aesthetics: Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini, Gianni Celati e la sta ora trasformando in una serie di articoli e in una monografia. Ha pubblicato l’articolo accademico Cesare Pavese, Homo Mediterraneus?” nell’ultimo fascicolo della rivista Italian Culture, la pubblicazione ufficiale dell’American Association for Italian Studies, in cui ha letto il lavoro di Cesare Pavese alla luce degli studi transnazionali italiani, analizzando l’estetica pavesiana di sradicamento, rappresentazione della migrazione e pratiche di traduzione come luoghi di tensione tra geografie locali e globali.

Hai recentemente pubblicato l’articolo “Cesare Pavese, Homo Mediterraneus?” su Italian Culture in cui hai analizzato alcuni dei principali aspetti associati a Pavese: sradicamento, migrazione e traduzione. Come hai avvicinato questi temi e attraverso quale prospettiva li hai analizzati?

Come hai accennato, traduzione e migrazione sono due indirizzi di ricerca che ho esplorato separatamente durante i primi anni del mio percorso universitario. È stato un piacere vedere questi due interessi confluire nella mia ricerca su Pavese. L’idea per l’articolo – e l’intera ricerca che ha portato a scriverlo – è venuta, più specificamente, tornando a Pavese dopo aver riflettuto per un certo periodo di tempo sulla migrazione. Come molti giovani italiani, ho scoperto Pavese a scuola – sicuramente al liceo e probabilmente alle scuole medie. Avevo circa 14 anni quando ho letto per la prima volta estratti da La casa in collina. Mi vengono in mente altri due ricordi. Una copia sgualcita de La luna e i falò che ho visto circolare tra lettori accaniti del mio liceo, credo che avessi 16 o 17 anni. E poi un flashback dagli anni degli studi di triennale all’Università di Bologna: sono seduta con il mio amico Mirko in Piazza San Giovanni in Monte, e avverto quella che i miei studenti americani chiamano “FOMO”, la Fear Of Missing Out (paura di essere esclusi da esperienze ed eventi, ndr). Mirko aveva seguito questo fantastico corso di Marco Antonio Bazzocchi sui Dialoghi con Leucò, che per varie ragioni non avevo o avrei avuto la possibilità di inserire nel mio curriculum. Iniziai immediatamente a leggere questo libro e tutto ciò che trovavo a riguardo. Quello fu poi l’argomento di molte altre conversazioni con Mirko. Sto ricordando questi aneddoti per dire che Pavese era molto presente negli ambienti che ho frequentato fin da adolescente. Tuttavia, dapprincipio Pavese era semmai una voce familiare e confortante, non l’oggetto di un’indagine critica. Ho dovuto prendermi una pausa da Pavese prima di poter tornare al suo lavoro e considerarlo con uno sguardo completamente diverso. La nuova prospettiva che ho adottato riavvicinandomi a Pavese è quella di pensare interdisciplinarmente alle sfide culturali dell’Italia contemporanea e in particolare alla resistenza che i governi italiani hanno mostrato contro la messa in discussione di una narrativa della migrazione – sia immigrazione che emigrazione – che definire superata è poco. Penso alla necessità di riformare la legge sulla cittadinanza che paradossalmente facilita il collegamento con discendenti di emigranti – che, in alcuni casi, non hanno un legame stretto con l’Italia – ma la complica per giovani italiani che, sebbene nati da genitori stranieri, chiamano l’Italia e l’italiano la loro casa. Pavese non è stato un migrante (transnazionale) ma la sua intera opera riguarda l’attaccamento ai luoghi, lo sradicamento e quanto la mobilità in forme diverse (migrare, spostarsi per lavoro) influenzi le persone. Il bisogno di andarsene, di rimanere o di tornare: tutti questi “umori” o spinte esistenziali sono molto presenti nelle opere di Pavese. Mentre rileggevo Pavese tenendo a mente questi temi, ho immaginato studenti italiani provenienti da esperienze di diaspora, diretta o dei loro genitori, leggere Pavese per la prima volta. Cosa avrebbe detto loro Pavese? La mia posizione non mi permette di rispondere a questa domanda ma spero che queste riflessioni possano dare avvio a un dibattito su quanto la diversità dell’Italia contemporanea e il bisogno di decolonizzare i curricula accademici di italiano cambino l’esperienza di leggere Pavese. 

Il punto di partenza del tuo articolo è la provocazione di Carlo Bernari per cui Pavese andrebbe considerato uno scrittore “meridionale”. Che cosa significa?

“Pavese è uno scrittore mediterraneo?” è l’ipotesi che volevo testare nella mia analisi dopo aver intuito che la sua rappresentazione di terra, mare e oceano rivelava qualcosa di più rispetto a una semplice sensibilità estetica ai paesaggi naturali. Calvino ci ha lasciato alcune osservazioni su come Pavese si abituò pian piano al mare mentre lo aveva odiato durante il confino in Calabria, ma volevo rivedere queste conclusioni. Ringrazio Roberto Dainotto (membro della mia commissione dottorale) per avermi raccomandato la lettura del saggio di Bernari Ma esiste davvero una letteratura meridionale? dove ho trovato idee molto vicine alla mia ipotesi. Scrivendo negli anni ’80, Bernari dichiara che Pavese potrebbe essere considerato sotto tutti gli aspetti uno scrittore “meridionale”, basterebbe solo fare attenzione alla qualità della sua scrittura invece che al fatto che è nato piemontese. L’intenzione di Bernari era di sfidare le semplificazioni che spesso hanno intrappolato scrittori provenienti da regioni non settentrionali in generiche etichette che non rendono giustizia alla pluralità di punti di vista che ognuno di questi scrittori ha contribuito alla letteratura nazionale.

Nel tuo articolo hai definito l’attitudine anti-oceanica di Pavese: per lui, terra e mare erano due opposti reami mitici e scelse la terra come l’unico luogo possibile per le radici di ciascuno (un tema relativo al ritorno che caratterizza anche molti suoi personaggi). Come si rispecchia questa attitudine nell’opposizione contemporanea tra locale e globale così come si è rispecchiata nella cultura dello ius sanguinis?

Sono stata molto attenta a mantenere stabili i miei riferimenti storici e filologici e voglio precisarlo nel caso in cui vedere Pavese accostato a una legge sulla cittadinanza italiana del 1992 sembrasse inizialmente anacronistico a qualcuno. Ovviamente, Pavese visse nel suo tempo storico e questo va distanziato dalle dinamiche locali e globali che vediamo oggi. Ho in mente un approccio genealogico e foucaldiano nel proporre una sorta di continuità tra la cornice geofilosofica che ho identificato in Pavese e i presupposti culturali dietro alla nostra attuale legge sulla cittadinanza. Credo, cioè, che ci siano tracce culturali di ius sanguinis – che è una particolare interpretazione del diritto di una persona alla terra – in Pavese che possiamo notare anche nella nostra attuale legge sulla cittadinanza. Pavese visse la maggior parte della sua vita adulta sotto il fascismo e poi ci fu anche la guerra. Le forme di appartenenza che vediamo rappresentate nelle opere di Pavese sono “verticali” e rigide e generano forme di esclusione che non possono essere sanate. L’origine dell’esclusione in Pavese è esistenziale ma Pavese le dà forme narrative che sono anche geopolitiche, culturali o persino razziali. Inoltre, in Pavese c’è questa mitica rappresentazione degli italiani che migrano e alla fine ritornano. L’insistenza sul bisogno del ritorno, che vediamo spesso in Pavese, è implicita anche nella nostra legge sulla cittadinanza – se non gli emigrati, i loro discendenti ritorneranno. È chiaro che Pavese non ragionava in termini legali, ma la comprensione geofilosofica e/o geopolitica di cosa significhi vivere in un luogo e appartenere a un luogo (e a una comunità) sono fortemente evidenti nelle sue opere. Pensando a Pavese e alla migrazione in questi termini ho trovato due aspetti estremamente interessanti. Prima di tutto, è incredibile che la nostra legge sulla cittadinanza sia così simile, nei suoi presupposti culturali, al lavoro di uno scrittore morto nel 1950. Nel caso ci servissero più prove che questa legge è superata, eccole qui, davanti a noi! In secondo luogo, m’intrigava il fatto che Pavese, ossessionato dalle sue idee di radici, colline e terra, fosse anche lo scrittore che ci ha dato una pioneristica traduzione del romanzo “oceanico” di Moby Dick, che invece celebra l’assoluta libertà che viene dalla vita navigando. Questa era una contraddizione apparente che volevo approfondire. A UCLA ho letto attentamente il saggio di Franco Cassano Il pensiero meridiano con la mia correlatrice Lucia Re. Ho preso in prestito i termini geofilosofici di terra, oceano e mare da Cassano per trovare un senso alla relazione tra questi elementi, commentata sia da Bernari che da Furio Jesi. Penso che Pavese abbia tradotto il romanzo oceanico Moby Dick resistendo tuttavia al suo spirito oceanico. Questa potrebbe essere la principale qualità “mediterranea” del lavoro di Pavese: che usò il mito per contrastare terra e mare come reami assoluti senza cedere allo spirito oceanico per cui non c’è nessun ritorno, nessuna àncora. Pavese, in un certo senso, ha dunque “addomesticato” Moby Dick per i lettori italiani.  

L’analisi di come le tensioni tra locale e globale hanno dato forma all’estetica di Pavese (con Pasolini e Celati) è stata il centro della tua tesi di dottorato. Come si manifestano queste tensioni nel dare forma all’estetica di Pavese?

La questione delle tensioni tra locale e globale e come operano culturalmente è molto complessa, ampia e affascinante, e spero che mi occuperà nei prossimi anni. Riassumendo questo tema in termini che ci aiutino a entrare nell’estetica di Pavese posso quantomeno dire che “locale” e “globale” sono assi che danno forma al modo in cui vediamo il mondo e le nostre azioni, al nostro senso di identità, e al nostro (accesso alla) mobilità in questo mondo. La globalizzazione ha esacerbato tutto ciò ma dobbiamo tenere a mente che il capitalismo mondiale non è cominciato nel Ventesimo secolo –Antonio Arrighi, tra gli altri, lo spiega molto bene. Ho trovato Pavese degno di un secondo studio per la mia tesi di dottorato perché le tensioni tra locale e globale nel suo lavoro assumono una forma unica, che è difficile immaginare replicata nella sua specificità altrove. C’è sicuramente attrito tra il fascino di Pavese per quanto è straniero – nello specifico, letteratura e cinema americani – e quello che ho chiamato, in mancanza di una definizione migliore, il suo “anti-globalismo” ante litteram. Quest’ultimo prende forme diverse. Lo sguardo di Pavese fu rivolto principalmente verso le periferie o le provincie del mondo capitalista. Con cura e curiosità descrisse le società rurali che vide cambiare e cedere a stili di vita urbani e sradicati. Sappiamo che Pavese visse durante un tempo in cui la migrazione mondiale era ai suoi minimi storici per quel secolo, in un Paese in cui il razzismo era sistemico e la colonizzazione prendeva piede al di fuori delle frontiere italiane (sebbene non ci sia quasi menzione di questo nella sua scrittura). Non posso separare Pavese da questo contesto. Tuttavia, allo stesso tempo le idee geofilosofiche di Pavese erano estremamente idiosincratiche. Per esempio, Pavese credeva che nemmeno nella sua mente un poeta potesse invadere la terra di un’altra persona. Pavese odiava l’esotismo (che, come sappiamo, andava di pari passo con l’imperialismo europeo). C’è un certo livello di radicalità nella visione geofilosofica di Pavese. Se uno seguisse la logica della sua poetica, il colonialismo non sarebbe mai dovuto accadere, in nessuna delle sue forme. 

Ora lavori all’ Hamilton College. Come giovane ricercatrice e studiosa, quali pensi siano le più promettenti prospettive di ricerca future su Pavese?

Trovo promettente integrare l’opera di Pavese in corsi e dibattiti sull’Italia postcoloniale, la migrazione e la cittadinanza. Pavese potrebbe non darci le risposte che cerchiamo per risolvere problemi contingenti del nostro presente, ma ci mette sulla buona strada per avere discussioni significative su questi temi. In secondo luogo, esiste una certa complessità nelle rappresentazioni di genere in Pavese che merita sicuramente di essere ristudiata. Per esempio, mentre insegnavo alla University of Georgia, il Texas ha approvato il divieto di aborto oltre le sei settimane di gravidanza e altre pericolose limitazioni ai diritti riproduttivi delle donne. Due giorni dopo l’approvazione del divieto, io e i miei studenti abbiamo letto il brano sulla morte di Silvia, dovuta a un aborto clandestino ne La luna e i falò. Fu una lezione difficile da tenere, ma le parole di Pavese non avrebbero potuto suonare più forti e attuali. Questo è un altro caso in cui mi piacerebbe potessimo sentirci più distanti dal mondo di Pavese.

“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da un famoso passaggio de La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Settantatré anni dopo il suicidio di Pavese, abbiamo ancora bisogno di lui? Perché?

Non ho affrontato direttamente il tema del suicidio di Pavese nella mia ricerca – rimando al libro di Elizabeth Leake su questo tema. Ma per rispondere alla tua domanda su “perché Pavese ora?” o “perché ancora oggi Pavese?” dirò che non è un caso se le citazioni e i riferimenti che ho fatto in questa intervista sono seguiti dai nomi delle persone con cui ho condiviso quelle letture o che me le hanno suggerite. La letteratura, per me, è innanzitutto una questione di relazioni tra persone. È per questo che abbiamo ancora bisogno della letteratura, oggi più che mai. Questo è anche il mio modo di affrontare la dicotomia tra “vita” e “arte” – se ha senso parlare di dicotomia. Provo sincera gratitudine verso Cesare Pavese per “la poesia che ha dato agli uomini” – credo proprio intendesse “esseri umani” in questa frase. Sono stata profondamente toccata dalla sua poesia in momenti diversi della mia vita. Come poeta, romanziere ed editore, Pavese parla del suo tempo, ma Pavese lavorò anche incessantemente verso una poetica che potesse essere la sua idea di verità, una verità che voleva disperatamente condividere. Trovo questo impegno ammirabile e un’ispirazione come intellettuale, educatrice, e persona. Mentre le parole di Pavese sono ormai state scritte, le nostre domande di lettori cambiano in base a ciò che le nostre esperienze ci chiedono di fronteggiare e comprendere. Ai ricercatori di domani direi di non essere timorosi di rivolgere a Pavese le domande che più occupano i loro pensieri. 

Intervista a cura di Iuri Moscardi
 

In copertina: fotografia di Federica Di Blasio, scattata vicino all’oceano sull’Abbot Kinney Boulevard di Venice Beach, nel 2017. Nella foto, un’opera del progetto Scratching the Surface in cui l’artista portoghese Vhils rivisita il concetto di radici, facendo emergere ritratti dalla materia in città iperglobalizzate e in continua trasformazione. Il contrasto tra il blu del cielo e il marrone dei mattoni ricorda il contrasto tra elementi che la ricercatrice analizza in Pavese. 

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