Premio Pavese Scuole - Stefano Bottino e Matteo Budicin

Questo è un luogo da ritornarci

Con questo testo sul rapporto tra Natura e Destino nella poetica pavesiana, Stefano Bottino e Matteo Budicin sono tra i cinque vincitori del Premio Pavese Scuole 2023.

Pubblichiamo Questo è un luogo da ritornarci: natura e destino in Cesare Pavese, uno dei cinque testi vincitori della quarta edizione del Premio Pavese Scuole, riconoscimento che affianca il Premio Pavese per avvicinare i giovani allo scrittore e promuovere la lettura delle sue opere in chiave personale. Gli autori sono Stefano Bottino e Matteo Budicin, studenti del Liceo Scientifico “Luigi Lanfranconi” di Genova, cui vanno i nostri complimenti: guarda l’intervista

Premessa 

Nell’opera di Pavese ricorrono due temi, quelli del destino e della natura. Testi come Gli Dèi e Il campo di granturco, tratti rispettivamente da Dialoghi con Leucò e Feria d’agosto, consentono senza dubbio di definire al meglio tali temi, che qui verranno presi in esame anche per come si presentano in La Langa, incluso anch’esso in Feria d’agosto, nella poesia-racconto I mari del Sud, che apre Lavorare stanca, e nell’ultimo romanzo di Pavese, La luna e i falò

Radici 

Analizzando il tema della natura, è possibile trovare nella maggior parte delle opere un richiamo al concetto delle radici, che per Pavese si collocano nelle Langhe. Questo tema fondamentale è presente in La Langa nel momento in cui il protagonista afferma che pur di non abbandonare il luogo natale rinunciò a sposarsi con una “ragazza bella e ricca” che incontrò in uno dei suoi viaggi all’estero e che aveva le sue stesse ambizioni, perché stabilirsi in un luogo che non fosse la sua terra significava abbandonarla e non farvi più ritorno e ciò risultava inaccettabile. Per quanto riguarda la poesia-racconto I mari del Sud si può osservare che Pavese nella seconda strofa fa dire al cugino “Le Langhe non si perdono” (v.16), ovvero il luogo di nascita rimane dentro ogni individuo anche se se ne allontana per molto tempo, prova ne sia il fatto che l’uomo, nonostante “vent’anni di idiomi e di oceani diversi” (v. 20), non ha scordato il dialetto, che è tutt’uno con la Langa, con la terra: è indicativa, in tal senso, la similitudine tra il dialetto e le pietre della collina sulla quale Pavese e il cugino stanno camminando (“Ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre/ di questo stesso colle, è scabro”, vv. 18-19). Passando al romanzo La luna e i falò torna lo stesso tema, infatti Anguilla, il protagonista, raggiunta la maggiore età, parte in cerca di fortuna, ma nel cuore gli è rimasta l’immagine dei luoghi in cui è cresciuto, proprio perché le sue radici non affondano “nel sangue”, infatti egli non sa chi lo abbia messo al mondo, ma nella terra, nei luoghi, che ai suoi occhi e nella sua memoria hanno assunto una valenza materna e mitica al tempo stesso1

La terra e la città 

Dal tema delle radici ne germogliano altri, che sono ricollegabili alla natura, e la terra è uno di questi, infatti ci si può soffermare sul modo in cui Pavese rappresenta i luoghi in cui è cresciuto e vissuto nella giovinezza. La terra è descritta come un luogo mitico, arcaico, che da sempre accoglie il rito e la ciclicità, espresse dai falò e dalle fasi della luna. Ci si può allontanare nello spazio e nel tempo da quella dimensione, ovvero si può viaggiare e si può diventare adulti, ma un legame rimane sempre, essendo dato una volta per tutte. In tale senso la città è, per contrasto, il luogo dell’effimero, del sogno che non si realizza: ne La luna e i falò Anguilla, alla luce delle esperienze vissute, afferma di non sapere più cosa credere in materia di politica e di rapporti tra classi dominanti e ceti subalterni, e, aggiunge, “a Genova quell’inverno ci avevo creduto”2, ma ciò che la città sembra far vedere chiaro finisce per risultare precario, inconsistente. Ne I mari del Sud, mentre Pavese e il cugino camminano sulle colline e stabiliscono un contatto con la natura nel calpestare la terra scabra e nel parlare il dialetto altrettanto scabro di quei luoghi, la città di Torino è una presenza lontana, nient’altro che un riflesso luminoso nella notte. E nella quarta strofa Pavese, parlando di sé, afferma “La città mi ha insegnato infinite paure” (v. 49). 

Pavese è molto legato alla terra e alla natura e infatti ne Il campo di granturco l’autore rievoca un preciso momento che ha segnato la sua infanzia, ovvero la prima rivelazione della potenza di un luogo, e il contatto è stato così profondo che, scrive l’autore, “Nulla mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo entrare in me stesso. E il campo, e gli steli secchi, a poco a poco mi frusciano e mi si fermano in cuore. Tra noi non occorrono parole”. Tornare in quel luogo significa ritrovarlo per come lo si è visto per la prima volta: “Che il tempo allora si sia fermato lo so perché oggi ancora davanti al campo lo ritrovo intatto”, e “tutto è morto di quel bambino tranne questo grido”, ovvero il richiamo misterioso della terra, la rivelazione della sua oscura potenza, che non è venuta meno, nonostante il bambino di un tempo abbia costruito lontano il proprio destino. Anche in La Langa, come ne La luna e i falò, c’è un movimento dall’esterno all’interno, un ritorno dai luoghi degli uomini – i viaggi, le città, il mondo vasto e ricco di occasioni – alla dimensione arcaica della terra e della natura, e dunque alle radici. In La Langa il protagonista, tornato al paese per una visita dopo anni trascorsi lontano, tra viaggi e città, non ritrova i suoi (“Dei miei non c’era più nessuno”), ma i luoghi e la natura di un tempo (“ma le piante e le case restavano”). Intenzionato a ripartire, scarta l’idea di prendere in moglie una ragazza del luogo, perché così facendo avrebbe solo una parte del suo “paese in casa”, e verrebbe meno la possibilità di averlo “nella memoria tutto quanto”. Del resto non c’è bisogno di portare in città alcunché di materiale, che ricordi il paese, perché “sapevo che io venivo di là, che tutto ciò che di quella terra contava era chiuso nel mio corpo e nella mia coscienza”. 

Anguilla torna in paese e lo trova diverso, alcune cose sono cambiate per sempre, come apprende parlando con Nuto, che in paese è restato e lì ha dato forma al suo destino, tuttavia, nel tornare in città, dove ormai vive, affida a Nuto il futuro di Cinto, il ragazzo storpio e sfortunato, rimasto solo al mondo, nella cui vicenda di sofferenza e solitudine Anguilla, diventato uomo, rivede il sé stesso bambino. In quel luogo, a contatto con la terra e con la la natura, lontano dalle insidie della città, Cinto condurrà la propria esistenza. 

Anche Silvio Pavese, protagonista de I mari del Sud, è protagonista di un ritorno al paese e alla terra, dove cerca di introdurre quella modernità che ha conosciuto in giro per il mondo: i motori, il garage, l’officina meccanica, il distributore della benzina. Il piano, però, non ha la riuscita sperata, perché si può cambiare paese, ma non cambiare il paese, portare la città dentro il paese. 

Vita dentro e fuori il paese: storie di destini 

C’è chi si separa dalla terra e chi a essa rimane legato, e spesso in Pavese il destino di chi è partito entra in relazione con il destino di chi è rimasto. Tendenzialmente chi rimane fedele alla dimensione della terra, della collina, del paese, o per lo meno non si allontana troppo da essa, rivela, seppur nella malinconica rassegnazione per la sorte non tentata, una solidità che chi è andato via non possiede. Ciò è ben evidente se si esaminano le coppie Anguilla e Nuto ne La luna e i falò e Cesare e Silvio Pavese ne I mari del Sud

Anguilla si confronta con l’amico dell’infanzia e della giovinezza, Nuto, che ha deciso di rimanere e di rinunciare al sogno della musica per l’onesto lavoro di falegname e “provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo3”. Nuto è rimasto e, a suo modo, si è battuto per liberare la sua gente e la sua terra, ha infatti collaborato con i partigiani nel momento cruciale della Resistenza. Anguilla si è allontanato e non ritrova intatta la dimensione della terra e del paese, perché, come sostiene Nuto, che non si è mai allontanato dal Salto, “per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne”4

Questi temi si possono trovare anche ne I mari del sud, infatti Silvio Pavese, che torna a Santo Stefano Belbo dopo vent’anni di assenza e di esperienze nei più disparati angoli del mondo, si confronta con il cugino, che vive a Torino e che dunque non si è allontanato troppo dalle colline, e che spesso vi fa ritorno. Il poeta, misurando la sproporzione tra la dimensione limitata e protettiva della collina e la vastità degli orizzonti lungo i quali si è dispiegata l’esistenza del cugino, prova meraviglia per “la forza/ che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,/ alle terre lontane”, la stessa forza – quella della terra, delle radici, del paese – che spegne in Silvio la voglia di raccontare, di rievocare vicende che si confondono e paiono perdere consistenza nel momento del ritorno alla scabra concretezza della collina. 

Il senso dei luoghi 

Che cosa, dunque, per Pavese, determina un legame così stretto tra luoghi e destini individuali e, più nello specifico, tra terra e natura da una parte e vicende umane dall’altra? Gli dèi, l’ultimo dei Dialoghi con Leucò, contiene la risposta: i luoghi recano il segno indelebile del momento in cui li si è visti per la prima volta, in cui ciascuno ha costruito il proprio sguardo sul mondo. Allontanarsi da essi e farvi ritorno sono due movimenti che investono, in ultima analisi, il nostro essere più profondo, quel nucleo che non muta nel magma del divenire: dal quel nucleo ci si allontana e a quel nucleo si ritorna, con esso si fanno i conti e in esso ci si ritrova. Nell’equilibrio tra ciò che rimane intatto e ciò che il tempo e la Storia alterano e stravolgono sta il senso dell’esistenza, del complesso e necessario mestiere di vivere.

1 È significativo, in tal senso, che nella minuta de Gli dèi il titolo risulti corretto in I luoghi 

La luna e i falò, cap. XXVI 

La luna e i falò, cap. I

Ibid.

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