Premio Pavese Scuole -Gabriele Calzia

La luna

Con questo testo sul rapporto tra Natura e Destino nella poetica pavesiana, Gabriele Calzia è uno dei cinque vincitori del Premio Pavese Scuole 2023.

Pubblichiamo La luna, uno dei cinque testi vincitori della quarta edizione del Premio Pavese Scuole, riconoscimento che affianca il Premio Pavese per avvicinare i giovani allo scrittore e promuovere la lettura delle sue opere in chiave personale. L’autore è Gabriele Calzia, dell’Liceo Classico “G.P. Vieusseux” di Imperia, cui vanno i nostri complimenti: guarda l’intervista

La campagna promette da sempre il ritorno vichiano. Tutti sanno che le Moire non tradiscono: filano, tendono, recidono.  

La terra è la stessa d’un tempo, di quando mi chiedevo cos’è un uomo. Ora lo so. Le Moire hanno cantato il mio destino. 

Guardo Giorgio perdersi nel labirinto di viti e sfumare nella notte autunnale, sotto un cielo vuoto, col sangue torchiato che gli scorre intorno, sulla collina. Con gesti bruschi cerca d’accendere un fuoco, gettando un grido. Poi il suo calpestìo echeggia di nuovo in questo silenzio mortale. 

Ero anch’io così, e non esisteva la morte. Ora ci sono dentro, e lo so. Correvo  anch’io su queste colline, non sapevo ciò che avevo nelle ossa nel midollo nel  sangue. Che ciò ch’è stato è per sempre. Ho visto la morte e bevuto sicuro di  sfuggirle — perché tutto crede, un uomo, nella vita. Ho pensato anche questo. 

Anch’io correvo sul manto di foglie, rotolavo Selene nell’erba ed ero felice. Lei specchiava i suoi occhi nei miei. Ora, sotto la luminosa-impassibile luna, non distinguo i filari — questa stessa terra, e vivo nell’Ade. Il mio pensiero è solo  morte, anche se non si ama chi è morto.  

Ogni sera cammino con Giorgio su quest’erba rossa, eppure solo oggi ho  pensato al destino. A me bambino. A questa campagna. A questa luna. Improvvisamente m’è sembrato di non averle viste mai. Per tutti la campagna è qualcuno.  

Giorgio girovaga illuso di scoprile tutte, quelle ombre, un giorno. Ma il giorno  in cui ci sarà per lui la luce del mattino rimarrà deluso, perché saprà che a noi  mortali gli dèi hanno concesso soltanto la luna. Io non sarò più su queste colline a proteggerlo, perché sarò solo quel sangue che gli scorre nelle vene, e la terra che calpesta. O la voce del vento che mugghia tra le foglie.  

Adesso corre, e ancora non beve. Quando saprà, berrà anche lui, cercherà di  sfuggire, si dimenerà come un ossesso. Mi cercherà qua. Conoscerà se stesso  soltanto guardando suo figlio. 

Penso alle stagioni morte, mentre guardo la luce cinerea: son contento. Atropo è

vicina, pronta a recidere — un destino non tradisce — ma ormai non mi importa più. L’uomo che dovevo essere sono stato. Non sarò altro. 

L’ultima delle tre lune finisce sparendo tra le colline. Domani cresce e si fa un’altra anche se è la stessa di sempre — da prima che mi chiedessi cos’è un  uomo. Ora lo so, e conosco la luna, — il sangue che ha visto e che tace —,  dea eterna del nudo cielo. 

Di me, invece, non rimane che Giorgio. Sussurro il suo nome, violo un destino. Lui si aspetta che gli scopra un’ombra, e invece rimango a guardarlo. Torce il  collo, voltandosi verso di me — suo padre. Chissà se già si chiede cos’è un  uomo. Forse, per lui, io sono già questa terra, questo sangue che non conosce.  

Mi guarda, ed echeggia:  

– Di’ …

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