I premiati

Norman Gobetti (traduzione), Emilia Lodigiani (editoria), Gavino Ledda (poesia), Ludovica Maconi e Mirko Volpi (saggistica) e Michele Mari (narrativa): ecco i vincitori del Premio Pavese 2022.

Norman Gobetti

Norman Gobetti

Sezione traduzione

Giunti al quarto anno del Premio Pavese nella sua veste rinnovata, omaggiamo un altro dei grandi traduttori italiani dall’inglese: una figura che rappresenta al contempo un quarto stile di traduzione, diverso dai precedenti.

Norman Gobetti traduce dal 1997. In maniera professionale ed esclusiva, a parte i corsi che tiene a Torino e Pisa. In questi venticinque anni ci ha regalato settantaquattro traduzioni, a cui stanno per aggiungersi quelle in uscita a breve termine. La sua ultima fatica è la mastodontica biografia di Philip Roth, pubblicata da Einaudi.

Roth, Gobetti lo conosce bene, avendone tradotto dieci libri: La mia vita di uomo, Indignazione, Quando lei era buona, e altri. Norman Gobetti è, in parole povere, la voce italiana di uno dei giganti della letteratura americana contemporanea (insieme a Vincenzo Mantovani, traduttore degli altri titoli). Basterebbe questo a far capire la sua importanza e la sua responsabilità nel panorama editoriale italiano. Ma Gobetti è il traduttore anche di Mohsin Amid, Daniel Mendelsohn, Bernard Malamud, Amitav Ghosh (in coppia con Anna Nadotti, Premio Pavese 2020), Pete Dexter… e altri autori di primissimo piano.

Sulle traduzioni di Norman Gobetti si sa di poter contare. Onesto, rigoroso, lui non userà mai la fluidità della sua prosa per risolvere le difficoltà con una scorciatoia; non forzerà mai l’inglese in belle trovate e invenzioni spericolate. Solido, esperto, lui sa che delle sue traduzioni ci si potrà fidare.

A partire da uno scrupoloso lavoro di ricerca, che è uno dei tratti peculiari del suo stile, Norman Gobetti entra là dove deve entrare, nel mondo del libro che ha il compito di tradurre, e là resta. Il suo stile di lavoro si può definire, metaforicamente parlando, topografico. Traduttore-cartografo, Gobetti esegue una mappatura precisa del terreno in cui si deve avventurare. Nota le trappole e le piste false; non ha paura delle sabbie mobili e dei picchi dove l’aria è più rarefatta. Legge il territorio del suo autore, della sua autrice, e avanza. Talvolta c’è un duro lavoro di disboscamento da fare, talvolta meno. Non scappa, non divaga, e soprattutto non altera il paesaggio, camminando leggero.

Così facendo, mira a compiere uno degli sforzi più ardui e più creativi della traduzione come tale. Perché nessun traduttore può percorrere la via – poetica, immaginifica, linguistica – di uno scrittore se innanzitutto non la sa riconoscere, e nessun traduttore è davvero bravo se, dopo averla riconosciuta, non è capace di seguire quella via, e nessun’altra. Può sembrare ovvio, ma in realtà è l’impresa delle imprese. L’orizzonte ideale di qualunque traduttore.

A Norman Gobetti va, dunque, il nostro grazie, la nostra fiducia di lettori, e il Premio Pavese 2022 per la traduzione.

 
 

Nato nel 1969 a Torino, dopo essersi laureato in storia e critica del cinema Norman Gobetti ha lavorato dal 1995 al 2002 come redattore interno per la rivista “L’Indice”. Dal 1994 al 1998 ha collaborato con alcuni festival cinematografici. Dal 2002 al 2005 ha lavorato come redattore esterno per la casa editrice Giano. Nel 1997 ha cominciato a lavorare come traduttore, principalmente per l’Einaudi, con cui collabora anche come revisore. Tiene laboratori di traduzione letteraria presso l’Università di Pisa (dal 2009) e presso la Scuola di specializzazione in traduzione editoriale di Torino (dal 2011). Ha pubblicato un libro su Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme (Lindau, 1997) e recensioni, articoli e saggi per le riviste “Garage”, “La terra vista dalla luna”, “Lo straniero”, “La società degli individui”, “L’Indice”, “Tradurre” e altre.

Emilia Lodigiani

Emilia Lodigiani

Sezione editoria

Si dice editoria di nicchia, ma è una modesta definizione. Evoca angustie, il ritirarsi in una tana, il cercare protezione. Meglio chiamarla editoria orientata, determinata, intenzionata. Soprattutto quando, come nel nostro caso, è coraggiosa, intrepida, prende il mare avendo a mente una meta precisa per quanto lontana e difficoltosa da raggiungere.

Quando trentacinque anni or sono, nel 1987, Emilia Lodigiani, oggi affiancata da suo figlio Pietro Biancardi, fondò Iperborea aveva idee chiarissime e si dava mete e confini altrettanto chiari. Pensava e pensa tuttora che una vasta area geografica, il Nord dell’Europa, sia rimasta ai margini dell’editoria nostrana, interessata principalmente ai grandi paesi dell’Europa centrale, Francia, Germania, Regno Unito. Sicché la letteratura degli iperborei è comparsa certo nei cataloghi delle nostre case editrici, ma saltuariamente, sporadicamente, per non dire sbadatamente.

Dopo trentacinque anni di esplorazione sistematica, di un lungo e duro lavoro di scavo, siamo di fronte all’esito di quell’impresa ardimentosa. Che non è stata solo la rilevazione puntuale dei confini di un nuovo continente, ma la vera e propria scoperta che a quei confini geografici corrisponde uno stile intellettuale – e, perché non dirlo, spirituale – inconfondibile e definito, tutto diverso da quello del centro Europa per non dire dell’Europa mediterranea cui la nostra cultura in gran parte appartiene.

Basta prendere in mano – nel formato stretto e alto che contraddistingue Iperborea – Autunno tedesco di Stig Dagermann, il giovanissimo giornalista svedese (morirà suicida a trentun anni) che attraversa la Germania spettrale del 1946, per scoprire un modo totalmente antiretorico di affrontare la tragedia. O Anime baltiche di Jan Brokken, per vedere letteralmente emergere, come un’Atlantide sommersa, un intero continente culturale, una nervatura fin qui celata che connette esperienze artistiche le più svariate, la pittura, la musica, il cinema, alla comune anima baltica.

Iperborea, nelle persone di Emilia Lodigiani e di Pietro Biancardi, è forse l’esempio più netto e perentorio di che cosa l’editoria italiana volgarmente detta di nicchia possa conseguire. Per questo merita pienamente il Premio Pavese 2022 per l’editoria che ci accingiamo a conferirle. Per questo si pone come un modello cui ispirarsi e da seguire.

Emilia Lodigiani, nata a Milano il 17 ottobre 1950, laureata in lingua e letteratura inglese presso l’Università Statale di Milano, ha vissuto all’estero dal 1972 al 1985, prima a Boston e poi a Parigi, dove svolgeva attività di giornalismo. Ha lavorato come borsista all’Istituto di Inglese dell’Università Statale di Milano e ha pubblicato il saggio letterario Invito alla lettura di J.R.R. Tolkien presso l’editore Mursia (1981). Attraverso Tolkien e la successiva scoperta di autori scandinavi, nei dieci anni parigini, si è appassionata alla letteratura nordica e, tornata in Italia, nel 1987 ha fondato la casa editrice Iperborea, con il preciso scopo di condividere con altri le sue scoperte e far conoscere anche in Italia autori europei fino a quel momento trascurati dal mondo editoriale.

Nel 1996 è stata insignita da re Carlo Gustavo e dal Parlamento di Svezia dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella Polare, il massimo riconoscimento che la Svezia attribuisce agli stranieri. È stata invitata a intervenire in conferenze, tavole rotonde, lectio magistralis sulla letteratura nordica in Italia, sull’importanza della qualità delle traduzioni e sui vari temi del lavoro editoriale. Nel 1997 è stata premiata dalla Fondazione degli Scrittori Svedesi per l’opera di diffusione della cultura svedese in Italia. Nel 2010 e nel 2011 è stata insignita dall’Ambasciatore di Finlandia dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Rosa Bianca di Finlandia e dall’Ambasciatore dei Paesi Bassi dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine di Orange Nassau. Nel 2019 ha ricevuto dal Re Harald V di Norvegia la carica di Commendatore dell’Ordine Reale al Merito.

Oggi vive a Milano e ha due figli che lavorano entrambi nella casa editrice Iperborea: Pietro, che ne è l’editore, e Tomaso, redattore della rivista The Passenger.

Gavino Ledda - Ph. Mario Pischedda

Gavino Ledda

Sezione poesia

È naturale che il Premio Pavese 2022 per la poesia sia attribuito a Gavino Ledda, come Cesare Pavese autore di un poema tellurico e cosmogonico, erede nella materiata asprezza, e sorgiva forza, di quegli esseri che hanno «un sentore muschioso di bestia e di pipa» (Paesaggio). L’eruzione dal Caos non è immediatamente forma e l’impasto di nome e cosa vibra ancora, come in Rabelais – che della lingua di Ledda è antesignano – del mot originario, “motto-parola” e motte– zolla, che smotta e si strappa alla crosta. Non si tratta soltanto (secondo un celebre saggio di Gavino Ledda: Morte della lingua euclidea) di registrare la fine della corrispondenza tra il principium individuationis dell’oggetto e la sua collocazione sintattica negli equivalenti verbali con i quali l’uomo aveva rifatto in suono armonico l’ordo dell’universo. Questo principio analogico tra parola e cosa si è infranto, e Andrea Zanzotto ne ha contemplato la morte: «robe, color, vozhe, zhigar ciamar / […] / Che posto élo sto qua? E son-e / vivo in via de mort anca mi come ti?» (Silenzio dei mercatini 2, da Conglomerati, Mondadori 2009). Potremmo anzi dire che da Aurum tellus a Conglomerati è l’epinicio e l’epicedio di un durchbrecken, di un erompere-irrompere non più salvifico, ma traumatico (cioè un prorompere senza finalità): «E venne anche notte […] e per un interlùcolo e per un bruzzico molto lontano e luteano e argilloso e falloso e boscoso e pascuoso, cando propriu óiju de mugra a coga, abbaidénde sos busteddos de su chelu». Da leggere accanto alla «nostra palese, intoccabile / verità, amistà, fede, feli – / (starnuto) cità. / VULNERANT OMNES ULTIMA NECAT? MAH!» (Zanzotto, Continuazione “Tu sai che”, da Conglomerati).

Lingua materiata sì, ma teneramente incipitaria: «germi e i germogli per una lingua più umana e più intima, finalmente materissìa, acquissìa, amorissìa, per guarire di scienza e di natura» (Morte della lingua euclidea), come i «pappi» di Zanzotto: «Globi di inconcludenti ricami / esclusioni improvvise e totali / evoluzioni verso invisibili / prove finali / * / Le belle cadenze le rapidità / dei pappi librati verso aldilà / impossibili eppure immediati» [Lanugini, da Meteo , «(incerti frammenti 1993-94)»]; così, a sua volta, Gavino Ledda:

«La poesia in tali circostanze, come a tutta la gente di campagna, a lui piaceva più di ogni altro argomento: il solo ritmo del lavoro con la falce sembrava ve lo portasse spontaneamente. Ripeteva ottave su ottave, battorinas e battorinas, quartine, e duinas, coppie di versi componenti un’ottava a contrasto, muttos e altre strofe che aveva sentito o dagli anziani, nelle improvvisazioni durante le feste del raccolto o della tosatura» (da Lingua di falce).

Sì, la lingua di Gavino Ledda è “falce”, ben arrotata, che taglia le zizzanie del mondo nella cadenza eterna della fatica e del ritmo che la adempie.

La sua epica immemoriale: «In sos líberosssssss de sa natura bi est escríttu cun su latte di sa Terra chi ómine íntere sos mamidddosssssssssss est náschidu in mesu, [nei libri della natura vi è scritto che fra i mammelluti ómine è nato nel mezzo]» (Aurum tellus) ha tuttavia sempre un centro di gravitazione, ché « ómine è nato nel mezzo», memoria e compimento di un altro incipit eterno: « Nel mezzo del cammin di nostra vita».

Per questo il Premio Pavese gli è dovuto, e in quel centro egli ci ingloba.

Gavino Ledda è nato a Siligo, in Provincia di Sassari, il 30 dicembre 1938. Avviato sin da piccolo alla vita di pastore, consegue, nella matura adolescenza, la licenza elementare da privatista. La licenza media sarà conseguita a Pisa nel 1961, ancora da privatista, durante il servizio militare. Nell’Esercito diviene sergente radiomontatore presso la scuola di trasmissioni della Cecchignola, a Roma. Nel 1962 si congeda e torna in Sardegna, per continuare a studiare. Si diploma al liceo classico nel 1964.  Iscrittosi all’Università “La Sapienza” di Roma si laurea in Glottologia nel 1969. Nel 1971 è nominato assistente di Filologia romanza e Linguistica sarda a Cagliari.

Inizia a scrivere in quel periodo Padre Padrone, apologo autobiografico, opera che completa nel 1974, per pubblicarla nel 1975 da Feltrinelli. Il romanzo è un successo; ottiene il Premio Viareggio ed è tradotto in quaranta lingue. Nel 1977 i fratelli Taviani portano la storia sullo schermo con un film premiato a Cannes con la Palma d’oro.

Negli anni successivi continua nel suo lavoro di linguista e glottologo e pubblica il seguito di Padre padrone, sempre con Feltrinelli, con il titolo Lingua di falce (1977).

Ha diretto e interpretato il film Ybris (1984). Dopo Aurum tellus ha, tra le altre opere, pubblicato: I cimenti dell’agnello (1995, racconti e poesie; seconda ediz. riveduta 2000); Padre padrone (nuova edizione riveduta, 1998) con l’aggiunta di Recanto; e Lingua di falce (nuova edizione, 2003) con l’aggiunta de La suonata dei bruchi.

Gavino Ledda interpreta il ruolo principale in Assandira, film di Salvatore Mereu (2020) adattato dal romanzo di Giulio Angioni, Assandira (2004).

Ph. Mario Pischedda

Ludovica Maconi
Mirko Volpi

Ludovica Maconi e Mirko Volpi

Sezione saggistica

Questo libro esplora sistematicamente i primi documenti dei volgari italiani, dal secolo VIII fino ai “ritmi” poetici dell’inizio del XIII secolo. Sono i più antichi segni affioranti, sopravvissuti quasi per caso, di una lingua destinata a diventare grande, ma che in questa fase aurorale compare solo in enigmatiche e frammentarie tracce, in graffiti, in annotazioni notarili, in postille apposte ai margini di codici, sulle pareti di edifici religiosi, sui pavimenti di chiese oggi distrutte. I volgari italiani più antichi sopravvivono grazie a queste testimonianze che quasi per miracolo hanno superato le devastazioni della storia. I due giovani studiosi hanno ordinato il materiale con rigore, adottando criteri di distribuzione geografica, includendo anche l’area sarda. Hanno classificato i reperti in base alla loro tipologia: documenti d’archivio, scritture esposte, testi in versi. Hanno persino dedicato spazio ad alcuni documenti falsi, per lungo tempo creduti veri, poi smascherati con indagini filologiche quasi poliziesche. La ricerca di documentazione così antica, insomma, è una grande avventura, un’indagine non solo linguistica, un’inchiesta in sospeso tra archeologia, storia dell’arte, archivistica, paleografia. Agli autori va il riconoscimento e il plauso per questa rigorosa e affascinante sintesi, corredata di tavole fotografiche e di analisi linguistiche, che ci conduce in uno spazio oscuro e misterioso, alle origini delle parlate italiane.

Ludovica Maconi è professoressa associata in Linguistica italiana presso l’Università del Piemonte Orientale. Ha pubblicato libri e articoli riguardanti la storia delle idee linguistiche, la storia della lessicografia, la questione della lingua e lo studio del lessico italiano. Ha curato l’edizione di manoscritti ottocenteschi: l’abbozzo di “Storia della lingua italiana” del lessicografo piemontese Giuseppe Grassi e l’autografo della “Relazione” sull’unità della lingua di Alessandro Manzoni. Ha collaborato con Zanichelli agli aggiornamenti dello Zingarelli. È ideatrice e direttrice tecnica di ArchiDATA, l’archivio elettronico di retrodatazioni lessicali dell’Accademia della Crusca.

Mirko Volpi è professore associato in Linguistica italiana all’Università di Pavia, dove si è formato e dove tiene, tra gli altri, un corso sulla lingua della Commedia di Dante. Si occupa prevalentemente di Dante, appunto, e dei suoi antichi commentatori (a sua cura è l’edizione in quattro tomi del Commento alla Commedia di Iacomo della Lana, Salerno Editrice, 2009), di antichi volgari italiani (con studi ed edizioni di testi) e di aspetti dell’italiano non letterario tra Otto e Novecento. Tra i suoi ultimi libri, «Sua maestà è una pornografia!». Italiano popolare, giornalismo e lingua della politica tra la Grande Guerra e il referendum del 1946 (Libreriauniversitaria.it, 2014), «Amor condusse noi». Lettura linguistica di ‘Inferno’ V (Cesati, 2021) e (con L. Maconi) Antichi documenti dei volgari italiani (Carocci, 2022). Ha pubblicato inoltre Oceano Padano (Laterza, 2015) e Asilo Club (Salani, 2021)

Michele Mari

Michele Mari

Sezione Narrativa

Maestro di una lingua in cui tutto è possibile, in cui – come scrive in Leggenda privata – “non esiste la bassezza, perché ovunque tu ti volga, verso l’alto o verso il basso, trovi sempre il divino”, Michele Mari ha in questi anni dato voce a una letteratura poliedrica in cui ironia e fantascientifico, horror e grottesco, gusto per la riscrittura e per la rielaborazione memoriale, mimesi e pastiche, narrazione e saggio non sono mai soltanto gli ingredienti di una attitudine bizzarra volta a stupire, bensì costituiscono gli elementi chimici di un composto mutevole, perturbante, maestoso – quello della vita – che trova nella pagina scritta i suoi oggetti-feticcio. Per questo, come dice Mozart in uno dei racconti del recente Le maestose rovine di Sferopoli, la letteratura è simile al Gorgonzola, il cui fascino sta «precisamente nell’ambiguità fra la puzza e il profumo ovverosia fra lo schifo e la grazia ovverancora fra il basso e l’alto, cioè insomma, come sappiamo ben noi artisti fra la morte e la vita».

L’escursione tra basso e alto era peraltro già iscritta nel dna di uno dei primi libri di Michele Mari: Io venia pien d’angoscia a rimirarti in effetti accoglieva tutti i temi e le ossessioni dei libri successivi, l’infanzia con la sua fantasmatica e selvatica ambivalenza, l’idea di una letteratura come manifestazione vampiresca o mannara, la mise en abyme della propria autobiografia (quel mecomè metepsismo che ritorna in Leggenda privata), il gusto per il desueto, fino alla radiografia del rapporto padre-figlio – forse il tema costitutivo della ricerca di Mari, il mitologema originario e proteiforme delle sue pagine.

Non a caso è proprio “ossessione” una delle parole-faro di Mari, un autore i cui idoli (angosciosi, criptici, sanguinosi come i titoli di alcuni suoi libri) lievitano (come la pasta frolla di un suo strepitoso libro-saggio) fino a diventare divini, degni «di figurare nella Collana Viola Einaudi o nella Universale Scientifica Boringhieri» (citiamo ancora da Leggenda privata), e arrivando a fondere secondo una condivisibile annotazione di Andrea Cortellessa “il massimo di letterarietà e il massimo di visceralità”.

Il doppio, il ripiegamento solitario in un universo popolato di miti infantili e cosmici, la tragica necessità di abitare la casa della letteratura come un panopticon da cui osservare le pulsioni più cupe della natura umana, la forma (il manierismo) quale via per dare esistenza all’uomo, sono alcune delle ragioni che ci hanno spinto a scegliere come vincitore del Premio Pavese 2022 Michele Mari, alla cui autodefinizione ci affidiamo in chiusura: “Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto”.

Michele Mari è nato a Milano, dove ha insegnato Letteratura italiana all’Università Statale. Riscontro di questa attività sono alcuni volumi (Eloquenza e letterarietà nell’Iliade di Vincenzo Monti, Venere terrestre e Venere celeste. L’amore nella letteratura italiana del Settecento, Il genio freddo. La storiografia letteraria di Girolamo Tiraboschi, Momenti della Traduzione fra Sette e Ottocento, La critica letteraria del Settecento), diverse curatele e numerosi studi dedicati ad autori del Cinquecento e del Novecento (in particolare, Gadda, Landolfi, Manganelli).

I suoi libri di narrativa (quasi tutti nel catalogo Einaudi) sono Di bestia in bestia (1989; 2013), Io venía pien d’angoscia a rimirarti (1990), La stiva e l’abisso (1992), Euridice aveva un cane (1993), Filologia dell’anfibio (1995), Tu, sanguinosa infanzia (1997), Rondini sul filo (1999), Tutto il ferro della torre Eiffel (2002), Verderame (2007), Rosso Floyd (2010), Fantasmagonia (2012), Roderick Duddle (2014), Leggenda privata (Einaudi 2017), Le maestose rovine di Sferopoli (2022). Due i titoli di poesia: Cento poesie d’amore a Ladyhawke (2007) e Dalla cripta (2019). Ha pubblicato inoltre Milano fantasma (2008, con V. Vitali), Asterusher (2015 e 2019, con F. Pernigo), Sogni (2017, con G. Baruchello). I suoi saggi letterari sono raccolti nel volume I demoni e la pasta sfoglia (2004; 2017), i suoi fumetti nel volume La morte attende vittime (2019).

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