Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi è tornato a intervistare Lawrence Smith a proposito della sua recente traduzione inglese della tesi di laurea di Cesare Pavese.
Lawrence Smith è nato a Washington, D.C. e si è laureato nel 1959 a Harvard College. Ha passato un anno all’Università di Padova come Fulbright Exchange Scholar. Ha iniziato la sua carriera come bancario nel 1964 ma ha continuato a lavorare sulla sua tesi di dottorato, addottorandosi nel 1972 a Harvard. Sebbene non si tratti di un accademico, la sua figura è abbastanza rilevante quando si parla di Cesare Pavese, motivo per cui lo intervistammo già nel 2020. Smith è infatti l’autore di Cesare Pavese and America. Life, Love, and Literature (University of Massachusetts Press, 2008 e 2012) dove, basandosi su fonti e documenti originali, ha ricostruito per i lettori americani la vita e le opere di Pavese. Ha anche posseduto alcuni libri appartenuti a Pavese, con dediche autografe, che lo scrittore donò a Constance Dowling, il suo ultimo amore disperato e americano. Smith ha poi donato questi documenti allo Special Collections Center della biblioteca della University of Massachusetts at Amherst.
La tua passione per Pavese è iniziata molti anni fa, quando hai trascorso alcuni mesi in Italia come studente Fulbright, ed è proseguita nel tempo fino alla recente traduzione in inglese della tesi di laurea di Pavese, Interpretazione della poesia di Walt Whitman. Quali passaggi hai seguito in questo processo? Perché hai deciso di tradurre la sua tesi?
Il mio interesse per Pavese ha raggiunto l’apice con la pubblicazione nel 2008 di Cesare Pavese and America: Life, Love, and Literature (University of Massachusetts Press), un libro che tratta della tesi solamente come una parte della vita e del lavoro di Pavese e della sua relazione unica con la letteratura e la cultura americane. La traduzione, tuttavia, ha occupato più tempo nella mia vita rispetto al libro. Mi spiego. Passai il mio esame generale di dottorato a Harvard nel 1964. Lasciai quindi l’ambiente universitario con una concessione di sette anni per trasporre quello che avevo studiato in una tesi che, se accettata, mi avrebbe garantito il dottorato. Nello stesso anno venni assunto da quella che ora è Citibank e nel 1966 venni assegnato all’ufficio di Milano.
Vidi per la prima volta il dattiloscritto originale della tesi di Pavese nel 1967 negli archivi dell’Università di Torino. Avevo una lettera di presentazione del Professor Dante Della Terza che confermava la mia idoneità al dottorato e, basandosi su quella, gli archivi mi fecero cortesemente una fotocopia della tesi. La feci rilegare e rimase con me fino al 2018, quando la donai – con molto altro materiale pavesiano – allo Special Collections Center della biblioteca della University of Massachusetts at Amherst. Lessi la tesi non appena l’ebbi tra le mani ma allora non pensai a una traduzione: avevo una tesi di dottorato su Pavese da completare e lavoravo a tempo pieno per Citibank. Completai la mia tesi The Emblems of Youth: Cesare Pavese and America nel 1971. Quel lavoro conteneva la mia traduzione di numerose citazioni prese dalla tesi di Pavese e fu indiscutibilmente il precursore di quello che nel 2008 diventò il mio libro. La tesi venne accettata e nel 1972 Harvard mi concesse il dottorato. Tuttavia, io ero un bancario e il mio lavoro giornaliero non aveva nulla a che fare con Pavese. La sera invece era diverso: avevo una fotocopia del dattiloscritto con la tesi di Pavese e potevo aprirlo e lavorarci quando volevo.
Ho lavorato a Milano solo fino al 1970, dopodiché con la mia famiglia ci siamo trasferiti in vari luoghi (Belgio, Sao Paulo, Rio de Janeiro, Bahrain, Londra, New York), in nessuno dei quali svolgevo lavori in italiano o parlando la lingua. Così, per evitare che il mio italiano arrugginisse, iniziai a tradurre la tesi di Pavese in inglese. E ho continuato a farlo per i successivi cinquant’anni: completai una prima bozza all’inizio degli anni 2000 e, quando lo feci, mi colpì che nessuno avesse ancora pubblicato una traduzione inglese di questo lavoro. In effetti, all’epoca, nessuno aveva nemmeno pubblicato l’originale italiano. Cominciai a prendere il mio lavoro di traduzione più seriamente: interrogai amici italiani sull’uso e sugli idiomi della lingua, in particolare uno degli amici che avevo a Padova nel 1960, il sassofonista jazz Claudio Fasoli. Ripulii il mio lavoro e produssi una seconda bozza completa: fu in quel momento che iniziai a pensare seriamente non solo alla traduzione ma anche alla pubblicazione. Era all’incirca il 2004.
Sapevo che il centenario della nascita di Pavese nel 2008 avrebbe accresciuto l’interesse nei suoi confronti così proposi il lavoro ad alcuni editori. Suggerii loro che avrebbero dovuto chiedere a un intellettuale famoso di scrivere un’introduzione così da raggiungere più pubblico di quello che avrei attratto io: in particolare, menzionai Susan Sontag che aveva scritto di Pavese fin dal 1962. Uno degli editori che contattai fu la University of Massachusetts Press, il cui editor Paul Wright cambiò la traiettoria del mio lavoro rispondendomi: “Non sono così sicuro che ciò che Pavese ha detto su Whitman ci interessi quanto ciò che potresti dire tu su Pavese. Potresti inviarci una proposta che espanda la tua introduzione o trasformare la tua tesi di dottorato in un libro?”. Lo feci e la accettarono, e da allora fino alla pubblicazione del libro nel 2008, quello fu l’unico documento su cui lavorai. Il 2008 fu il centenario della nascita di Pavese e con il mio libro partecipai a molte conferenze su di lui. Nel 2009 poi fui onorato di ricevere a Santo Stefano Belbo il Premio Pavese per la critica.
Concluso quello che chiamo “il mio anno da autore”, avevo ancora nel cassetto la mia traduzione completa della tesi di Pavese. Come ogni traduttore continuavo a limarla, arrivando a una terza o forse quarta versione finché dissi “Basta!”. Quindi lavorai alla mia introduzione e la rividi con l’aiuto del professor Shaun O’Connell della University of Massachusetts, Boston. La pandemia rallentò il tutto ma quando mi sentii soddisfatto dell’introduzione e della traduzione mi misi a cercare un editore: sebbene la versione italiana fosse stata finalmente pubblicata in Italia e i diritti di Pavese fossero nel pubblico dominio, non riuscii a trovare un editore a stampa. Tutti quelli che contattai, inclusa la University of Massachusetts Press, mi risposero che il lavoro era troppo specialistico e mi augurarono buona fortuna. Mi rivolsi allora al professor Kenneth Price della University of Nebraska, Lincoln, uno dei direttori del Walt Whitman Archive, una straordinaria risorsa accademica online. L’archivio accettò la traduzione e l’introduzione che, con l’aiuto tecnico di Kevin McMullan, furono pubblicate online nella primavera 2023.
L’argomento della tesi di Pavese è uno dei più importanti poeti americani, Walt Whitman. Da americano, cosa pensi dell’interpretazione data da Pavese? Credi che abbia dimenticato qualcosa in quanto italiano?
La mia introduzione alla traduzione e il capitolo 6 del mio libro dicono ciò che penso dell’interpretazione pavesiana di Whitman: per riassumere, trovo l’interpretazione di Pavese strepitosa tanto quanto la sua scoperta di Whitman. All’epoca del suo diploma liceale, a diciassette anni, Pavese aveva già imparato l’inglese da autodidatta – non era una lingua che la scuola insegnava – e tesseva lodi appassionate della poesia di Whitman. Quattro anni dopo, scrisse la sua tesi di 300 pagine, piena di energia, apprezzamento, amore per la poesia di Whitman. La tesi mostra anche quanto bene Pavese avesse compreso l’inglese di Whitman e l’acume critico di Pavese già in giovane età. La sua lettura approfondita di When Lilacs Last in the Dooryard Bloom’d non ha paragoni con nessuna interpretazione in inglese. Pavese non colse qualche importante elemento della cultura americana perché italiano? Ma certamente! Non visitò mai l’America e nemmeno ci visse. Scoprì la cultura americana prima dai film americani e poi dalla letteratura americana. Immaginate se un americano nella stessa epoca avesse conosciuto l’Italia solamente attraverso i film degli anni ’30 e ’40 o i romanzi, classici e contemporanei. Gli sarebbe sfuggito qualche importante elemento della cultura italiana? Ciò che conta non è quello che Pavese tralasciò ma quello che comprese. E lui ha certamente compreso Walt Whitman. (Sulla ricezione italiana di Walt Whitman, leggi l’intervista a Caterina Bernardini, ndr).
Che tipo di impatto pensi che la tua traduzione avrà sugli studiosi e sui lettori americani? Pensi che aumenterà l’interesse degli americani per Pavese? E poi: pensi che stamperai la tua traduzione?
Mi piacerebbe vedere la mia traduzione e la sua introduzione in forma cartacea e, come la mia risposta alla tua prima domanda dimostra, ho cercato in tutti i modi di trovare un editore e sono tuttora aperto a ogni suggerimento. Come sai, faccio parte della generazione di lettori e studiosi precedente e mi sembra dunque strano che la mia traduzione della tesi di Pavese esista solamente in forma digitale, da qualche parte in un cloud o salvata su un server. Mi incoraggia tuttavia il fatto che sia disponibile a chiunque nel mondo abbia un computer, uno smartphone o un tablet, il che è molto di più rispetto a quello che si possa dire di un libro stampato. Spero che il mio lavoro interessi gli studenti, gli studiosi o i lettori generici cui capiterà di trovarlo, fosse attraverso una ricerca online casuale o tramite un’intervista come questa. Inoltre, anche se non lo possiamo dire con certezza, i contenuti digitali dovrebbero durare tanto quanto quelli a stampa, almeno finché nel mondo ci sarà elettricità.
In ogni caso, anche se la tesi fosse stampata, oltre che digitale, dubito che la traduzione accrescerebbe l’interesse degli americani nei confronti di Pavese. Quell’interesse è limitato: non molti americani, aldilà degli studenti e degli insegnanti di letteratura italiana, leggono Pavese oggi. Di tanto in tanto scrittori italiani tradotti in inglese hanno successo presso i lettori americani: penso a Il nome della rosa di Umberto Eco nel 1980, così come alla serie di gialli del Commissario Montalbano scritti da Andrea Camilleri e, più recentemente, alla tetralogia dei romanzi napoletani di Elena Ferrante. Non è molto, se ci si pensa bene. Nonostante tutto il loro valore intrinseco, scrittori come Pavese o, per dire, Calvino rimangono ai margini della coscienza letteraria americana.
Nell’introduzione scrivi che questa tesi presenta non soltanto un approccio insolito a Whitman ma anche una visione della mentalità di uno dei più importanti scrittori italiani del Ventesimo secolo all’inizio della sua carriera letteraria. Quali elementi supportano questa evidenza?
Sebbene la sua fama risieda nella sua scrittura, il lavoro quotidiano di Pavese era quello di editore, un lavoro che richiede gusto critico e una certa sensibilità per gli elementi della composizione. In tutta la tesi, e non solamente nell’analisi di When Lilacs Last in the Dooryard Bloom’d, l’attenzione di Pavese per il linguaggio, le strutture, le immagini, le transizioni, i toni e i movimenti lirici di Whitman indica una mente già in sintonia con gli elementi della composizione letteraria, capace di analizzare i modi in cui un professionista esperto ha messo insieme tutti i pezzi. Già a ventun’ anni Pavese, per quanto fosse solamente un giovane provinciale piemontese, era un letterato maturo.
Sempre nell’introduzione noti che questa tesi mostra la passione e l’amore sincero di Pavese per la poesia di Whitman e anche che Pavese seguì la lezione di Croce per cui alla critica spetta il compito di definire se un’opera è realmente arte oppure no. Pensi che questi due elementi si siano fusi insieme e abbiano caratterizzato tutta la carriera di Pavese come traduttore, critico, poeta e romanziere? Inoltre, consideri questi approcci positivi oppure inutili per un autore?
Sicuramente l’impalcatura crociana usata da Pavese per scrivere la tesi si dimostrò utile per lui al tempo: gli diede una struttura per guardare alle poesie di Whitman senza limitare il suo apprezzamento o la sua analisi di tali testi. Ma non credo che la teoria di Croce abbia giocato un qualche ruolo significativo nei saggi successivi di Pavese. Per esempio, nell’introduzione alla sua grande traduzione di Moby Dick Pavese non afferma mai che il suo lavoro è determinare se quel romanzo sia o non sia un’opera d’arte. Tuttavia, penso che Pavese abbia interiorizzato la massima crociana per cui tutta l’arte è una. Dico questo basandomi sulla fluidità di Pavese nel muoversi tra romanzi, poesia, racconti, saggi critici, “dialoghi” ed editoria.
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