Non solo uno studioso di Cesare Pavese, ma prima di tutto un suo lettore: per Dialoghi con Pavese abbiamo intervistato il professor Roberto Ludovico.
Roberto Ludovico è Associate Professor of Italian Studies alla University of Massachusetts, Amherst. Ha ricevuto la sua prima formazione accademica presso l’università di Bari dove si è laureato in lingue con una tesi in filosofia sul modernismo. La sua formazione letteraria è poi continuata con un Master e poi un Ph.D. in letteratura italiana, rispettivamente a McGill Universtiy (Montréal, Canada) e a Brown University (Providence, USA). Dal 2003 insegna alla University of Massachusetts Amherst. Sebbene Pavese non sia l’unico dei suoi interessi di ricerca, il suo lavoro ha orbitato verso Pavese in diverse occasioni e per diverse ragioni: studiando Calvino, poi studiando la rivista “Solaria” per le cui edizioni Pavese pubblicò la prima edizione di Lavorare stanca; facendo ricerca su Franco Antonicelli si è imbattuto in un suo inedito Ricordo di Pavese, la cui pubblicazione ha poi curato per la rivista “Italica”, con a corredo un saggio sui due; infine, studiando Renato Poggioli ha avuto modo di occuparsi del carteggio inedito tra Poggioli e Pavese, la cui edizione in volume è stata curata da Silvia Savioli per le Edizioni dell’Orso, con una sua introduzione. Soprattutto, afferma: “Mi piace leggere Pavese, sforzandomi, quando è possibile, di farlo anche per il solo piacere di goderne la lettura senza il filtro dell’analisi critica. In qualche modo cerco di difendere il mio diritto di essere anche lettore fruitore di Pavese, e non necessariamente critico o esegeta”.
La corrispondenza tra Pavese e Poggioli
Hai scritto l’introduzione al volume A Meeting Of Minds, che raccoglie la corrispondenza tra due intellettuali quali Cesare Pavese e Renato Poggioli negli anni 1947-1950. Quali aspetti del Pavese editore e organizzatore di cultura emergono da queste lettere?
Lo scambio epistolare tra Pavese e Poggioli, ruota – come è facile intuire – intorno a questioni editoriali relative al periodo in cui Poggioli era impegnato alla pubblicazione del Fiore del verso russo presso la casa editrice Einaudi, cui sarebbe dovuto seguire un secondo volume – La teoria dell’arte d’avanguardia – poi rifiutato dall’editore per ragioni ideologiche. Dagli scambi intorno a questa sofferta vicenda emergono, a mio avviso, due identità di Pavese: il Pavese individuo e il Pavese collaboratore di Einaudi come membro del consiglio editoriale della casa editrice. Nelle fasi iniziali della corrispondenza, Pavese, che ovviamente aveva curato di propria mano l’imminente edizione del Fiore, e di cui conosceva bene i contenuti, sembra non avere alcuna esitazione a pubblicarlo. Il Pavese individuo, dunque, pensa in maniera indipendente e non si pone limiti né nel garantire la libertà di espressione dell’autore con cui sta lavorando, né nell’accettare la critica che questi muoveva verso gli aspetti apertamente repressivi della politica culturale sovietica. Non possiamo escludere che dubbi riguardo alla ricezione in casa Einaudi delle affermazioni antisovietiche contenute nel Fiore ne avesse anche Pavese, ma è una nota di merito a suo favore il fatto che procedesse comunque nelle sue intenzioni, deciso a pubblicare il Fiore e a farlo senza interferenze editoriali. Questo fino al coinvolgimento di Einaudi e degli altri membri del consiglio editoriale che, poco prima che la Casa licenziasse il volume già stampato, vollero apporvi una nota dell’editore con cui si prendevano le distanze dalle posizioni antisovietiche dell’autore. Già nelle le lettere degli ultimi mesi del 1949 Pavese si trova a dover indossare la veste (scomoda) di portavoce della casa editrice e dello stesso Einaudi presso Poggioli, residente in America. Il suo diventa da un lato un delicato intervento di mediazione tra l’editore e Poggioli, dall’altro (e, direi, soprattutto), tra il Pavese-individuo (quello che impariamo a conoscere nella fase dell’epistolario che precede l’intervento di Einaudi), e il Pavese collaboratore e portavoce della casa editrice, e quindi obbligato per ragioni professionali ad adeguarsi a una linea editoriale che forse non condivide del tutto.
Queste lettere furono scritte in un periodo in cui Pavese – anche a causa dello schematismo ideologico da Guerra Fredda – ridefinisce il suo mito americano dopo l’entusiasmo giovanile. Leggerle ci aiuta a ricostruire la figura meno conosciuta del Pavese “politico” legato al PCI, finora associata alle pagine del Compagno e agli scritti per l’Unità?
Francamente non credo che, fosse dipeso esclusivamente da lui, Pavese avrebbe apposto l’avvertenza editoriale (scritta di suo pugno, come ha appurato la curatrice del volume, Siliva Savioli) al Fiore del verso russo. Analogamente, c’è ragione di pensare che Pavese non avrebbe rinunciato alla pubblicazione della Teoria dell’arte d’avanguardia, già informalmente concordata con Poggioli e poi cassata dal consiglio editoriale einaudiano sulla scia delle critiche suscitate dal Fiore. Queste non sono scelte di Pavese, ma scelte che le circostanze gli impongono, e per circostanze intendo sia la linea che emerse allora nel consiglio editoriale einaudiano, sia le circostanze politiche dell’Italia nel 1950 cui fai riferimento nella tua domanda. Nella gestione della delicata controversia con Poggioli, quindi, Pavese si trovò schiacciato, suo malgrado, tra il proprio modo di vivere la cultura e la politica contemporanee e le pressioni esterne cui dovette, o accettò di, adeguarsi. Non è questa, però, la sede per un processo alle intenzioni. Mi permetterei, piuttosto, di insistere sull’ipotesi che egli non visse questa condizione con serenità e che, anzi, l’essere costretto a una scelta tra la fedeltà a Einaudi e la fedeltà ai propri principi personali (ancor prima della lealtà nei confronti di Poggioli) pesò ulteriormente sullo stato di malessere già profondo che da lì a poco lo avrebbe condotto al suicidio.
Nel rispondere a Poggioli, che in una lettera del 30 gennaio 1950 difendeva la propria posizione ideologica tra antifascismo e anticomunismo, Pavese componeva una lucida analisi della situazione politica a lui contemporanea e di come essa incidesse sul rapporto tra intellettuali ed istituzioni. A Poggioli, infatti, il 16 febbraio 1950 scriveva: “Badi però che il suo rifiuto – «né rosso né nero» – significa attualmente in Italia «sospeso tra cielo e terra», «né dentro, né fuori», «né vestito né ignudo» – insomma una situazione quale soltanto Bertoldo seppe sostenere e con una facezia dopo tutto. In Italia, ripeto, non so altrove.”
Ho riflettuto a lungo su questo passo, che ha assunto una rilevanza significativa anche nel mio lavoro attuale. Qui Pavese (il Pavese “politico” ma anche realisticamente pragmatico) offre a Poggioli un’istantanea, tanto efficace quanto cristallina, della storia italiana nel suo farsi, e dall’interno – per così dire. Non dimentichiamo, del resto, che Poggioli, trasferitosi negli USA nel 1938, non aveva vissuto in prima persona un periodo cruciale – dal 1938 alla guerra, alla Resistenza, all’istituzione della Repubblica – che avrebbe trasformato in maniera radicale l’identità del nostro Paese. Nell’ammonire bonariamente Poggioli (“badi però”) sulla situazione in Italia “attualmente”, a mio avviso Pavese non si rivolgeva solo al suo interlocutore, ma anche a se stesso, ben consapevole del disagio con cui viveva, lui pure, un simile dissidio: “né dentro, né fuori”. La differenza fondamentale tra i due sta nel fatto che Pavese aveva la consapevolezza tagliente, come sono taglienti le parole che sceglie per comunicarla, della realtà che lo circondava in Italia e dell’effetto che questo stato indefinito aveva su di lui.
I libri di Pavese ad Amherst
Pochi anni fa, la biblioteca della tua università ha ricevuto da Lawrence Smith alcuni libri appartenuti a Pavese, tra cui la copia di Moby Dick da lui tradotto che regalò a Leone Ginzburg e poi a Constance Dowling. Quali iniziative avete organizzato, e quali organizzerete in futuro, per valorizzare questi libri? Gli studenti sono interessati a studiarli?
Questa domanda mi dà l’opportunità graditissima di ringraziare ancora una volta Lawrence Smith per la generosità della sua donazione e per l’onore che ci ha fatto nello scegliere la nostra biblioteca e la nostra università per custodire la sua collezione pavesiana, soprattutto i cinque volumi contenenti le iscrizioni autografe di Pavese. La copia in due volumi del Moby Dick è forse la più preziosa perché – come ha spiegato – collega le due persone con cui Pavese ebbe il legame più profondo (Leone Ginzburg e Constance Dowling), e come egli si fosse illuso, forse, di riempire il vuoto lasciato dal primo con la seconda. Quando l’acquisizione e la catalogazione del fondo librario fu conclusa, nel settembre del 2018, su iniziativa del mio collega a UMass Andrea Malaguti, e in collaborazione con la DuBois Library, si organizzò un convegno pavesiano cui parteciparono ospiti importanti come Mark Pietralunga e Geoffrey Brock, raffinato traduttore in inglese del Pavese poeta, oltre che, graditissimo ospite, lo stesso Lawrence Smith. Fu l’occasione per presentare la collezione al pubblico, ringraziare Smith e, naturalmente, parlare di Pavese (qui la registrazione integrale dell’intero evento). L’emergenza pandemia ha purtroppo interrotto temporaneamente qualsiasi progetto di iniziative in persona, ma la ricchezza di questi volumi a mio avviso va oltre le iniziative particolari nell’ambito degli studi pavesiani. Mi spiego: i cinque volumi contenenti le iscrizioni autografe di Pavese sono conservati presso il dipartimento delle Special Collections, ma sono stati digitalizzati integralmente e messi a disposizione del pubblico degli studiosi e degli appassionati di Pavese di tutto il mondo. Nell’epoca della riproducibilità tecnica questi materiali sono dunque a portata di click per tutti. Questa accessibilità praticamente universale, tuttavia, ha l’effetto opposto a quello di inflazionare il valore della loro unicità. Se i contenuti sono a portata di mano di tutti attraverso il web, è solo attraverso l’interazione fisica col libro, e con i segni lasciati dalla penna di Pavese, che l’oggetto libro sprigiona tutto il suo potere evocativo. È il lettore che, in presenza del libro, consente di attivare la triangolazione tra l’autore, i destinatari di quelle dediche e il libro stesso. In questo senso questi libri sono oggetti dai poteri straordinari ai fini della didattica e della formazione della sensibilità letteraria degli studenti più giovani perché raccontano storie di persone realmente vissute non solo attraverso il contenuto stampato, ma anche e soprattutto attraverso la loro fisicità. Come tali, auspico – anzi, sono convinto – che saranno motivo di ispirazione per i nostri studenti, e non solo dei corsi di letteratura italiana o del Novecento. Sta a noi docenti saper mettere a frutto tutto il potenziale di questo generoso dono che ci è stato affidato.
Pavese: un’iper-modernista
Hai studiato il ruolo della rivista “Solaria” nell’allargare la cultura italiana degli anni ’30 alle avanguardie europee. Recentemente, alcuni studiosi si sono chiesti se Pavese fosse un modernista o no: pensi che lo fosse? Quale ruolo esercitò la letteratura europea del suo tempo sulla sua poetica?
Su questo tema si è discusso a lungo e in maniera accesa: una risposta a questo quesito non può che essere interlocutoria. Non è un caso che la prima edizione di Lavorare stanca sia l’ultimo volume uscito per le Edizioni di Solaria, quando già la pubblicazione periodica della rivista era stata interrotta. Fu anche l’ultima battaglia editoriale di Alberto Carocci in veste di direttore e fondatore di una delle riviste che ebbero maggior peso nel traghettare la letteratura italiana verso una dimensione europea, dove “Europa” significava “modernismo”. Il volume di poesie pavesiane rappresenta il punto d’arrivo del percorso di ricerca stilistica solariana in ambito poetico, così come Il garofano rosso di Vittorini rappresenta l’aggancio, per così dire, con la forma romanzo, oltre che il cardine sul quale ruota la maturazione letteraria, stilistica e ideologica dello scrittore siciliano. Il Pavese solariano, dunque, si pone al limite estremo di questo percorso intrapreso dalla rivista di Carocci nel 1926 e inteso a portare la letteratura italiana contemporanea nel Novecento europeo e modernista. Questo percorso però si conclude, come ho cercato di dimostrare nel mio libro su “Solaria”, proprio sulla soglia ultima della stagione modernista, simbolicamente rappresentata dal congresso degli scrittori antifascisti tenutosi a Parigi nel 1935.
Da questo momento in poi, e per tutta la durata dell’occupazione nazifascista in Europa e della Seconda Guerra Mondiale, la figura e il ruolo dell’intellettuale come definiti nell’ormai affermato canone modernista entrano in crisi e vanno riformulati per riemergere nel dopoguerra, svestiti dell’aura sacrale di cui il modernismo li aveva investiti. Pavese, classe 1908, per ragioni anagrafiche si era formato nel pieno della stagione avanzata del modernismo solo per maturare proprio quando la parabola del modernismo accingeva a concludersi. Se accettiamo la definizione del modernismo artistico e letterario come prodotto della crisi storica, sociale e filosofica della società moderna, allora possiamo dire che Pavese fu un iper–modernista, nel senso che visse e testimoniò la crisi della crisi della modernità, se mi si consente un gioco di parole. Fu, come altri della generazione della prima decade del Novecento, personaggio di transizione, sospeso tra le due epoche, pre- e dopoguerra, che nella nostra storia sono separate dal baratro più profondo, quello del conflitto mondiale e dell’Olocausto. Alla luce di queste riflessioni, azzarderei l’ipotesi di leggere la posizione ambigua che Pavese assunse di fronte ai fatti storici e politici del periodo bellico non come una forma di abdicazione nei confronti della realtà e del dovere etico di schierarsi e intervenire su di essa, ma come una forma di paralisi del pensiero (e quindi dell’azione) di fronte all’inspiegabile svolgersi della Storia.
Studiare Pavese oggi
Quali possono essere le direzioni di una futura ricerca che mantenga la rilevanza di Pavese nell’ambito della letteratura italiana ma anche europea e globale? Quali direzioni ha seguito la critica accademica americana su di lui, finora?
La ricerca su Pavese ha ancora tanto da dare alla letteratura italiana e io non ho certo l’autorevolezza per mappare tutti, né molti, dei possibili percorsi di ricerca. Dal punto di vista dei miei interessi e delle mie competenze mi sento però di poter dire che, poiché lo studio del modernismo in Italia ha una storia relativamente recente, a mio avviso molto lavoro c’è ancora da fare. Pavese può essere, per le ragioni elencate sopra, un autore chiave in questo campo di studi. Questo non solo per come la sua esperienza personale e letteraria intersecano la storia e la cultura italiana ed europea, ma anche per il respiro internazionale che ebbero la sua formazione e i suoi interessi. Per produrre risultati soddisfacenti, lo studio del modernismo in Italia non può non essere affrontato che da una prospettiva internazionale. La formazione e gli interessi di Pavese (anche come traduttore, s’intende) fanno di lui un intermediario prezioso tra la provincia italiana, l’Europa e l’America. La sua posizione di transizione tra due epoche ne fa invece una cartina di tornasole e punto di riferimento insostituibile per valutare come la cultura italiana reagisse agli stimoli delle altre letterature occidentali contemporanee.
In Nord America, dove risiedo e insegno, grande enfasi è stata data, giustamente, al Pavese americanista e traduttore e alla sua passione per l’America e la sua letteratura. Anche dal punto di vista dell’insegnamento questo è, nei nostri college e nelle nostre università, il punto d’ingresso più efficace per presentare Pavese agli studenti americani. Punto d’ingresso, appunto, nell’affrontare un autore la cui rilevanza è però universale per via della profonda umanità della sua esperienza personale e intellettuale, che lo rendono portavoce e simbolo di un’epoca e di una condizione esistenziale il cui valore non è né italiano, né europeo, né americano, ma universale, appunto. Un classico a tutti gli effetti, come ho già avuto modo di sostenere in passato, e come tale un patrimonio della letteratura mondiale.
Un Pavese ci vuole: parafrasando un celebre passo de La luna e i falò, questo è il titolo di una serie di eventi online su Pavese che ho organizzato con il direttore della Fondazione Pavese, Pierluigi Vaccaneo. A settant’anni dalla sua morte, un Pavese ci vuole ancora? Perché?
Un Pavese ci vuole. Senza dubbio, e con urgenza, oggi più che mai. Vorrei rispondere qui come lettore privato di Pavese, prima che come studioso del Novecento. La caratteristica che più istintivamente associo all’esperienza pavesiana (evito di proposito di usare il termine “letteratura” che potrebbe essere interpretato in termini restrittivi come la sola produzione artistica) è prima di tutto quella della fragilità, qualità fondamentale a definire l’esperienza umana più autentica e consapevolmente vissuta, come non può non essere nei tempi in cui viviamo. In un’epoca in cui individualismi e nazionalismi tornano di moda, come fossero la norma; in una quotidianità di rapporti sociali in cui l’astuzia è normalmente spacciata per intelligenza, e la sicumera e la prevaricazione prendono la maschera del successo, abbiamo urgente bisogno di modelli che rappresentino, soprattutto a beneficio dei più giovani, parametri comportamentali e di giudizio diversi, “deboli” per usare una categoria coniata con grande pregio da Gianni Vattimo. In questo senso Pavese è maestro di umanità insostituibile e necessario. Sta a noi, studiosi e docenti, rispondere attivamente a questo bisogno.
Dialoghi con Pavese: Rossella Riccobono
Cesare Pavese poeta e modernista: scopri di più nell’intervista alla professoressa Rossella Riccobono.
Dialoghi con Pavese: Nicola Cavalli
Le tecnologie digitali al servizio dei classici: per la rubrica “Dialoghi con Pavese” abbiamo intervistato Nicola Cavalli della casa editrice Ledizioni.
Dialoghi con Pavese: Sara Vergari
Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato la ricercatrice Sara Vergari, autrice del saggio Un “Pavese solo”.