Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato Nino Arrigo, che da anni si occupa del mito in relazione alla letteratura e all’arte.
Nino Arrigo è dottore di ricerca in Studi Inglesi e Angloamericani e Metodologie della Filosofia e da anni conduco ricerche sul mito in relazione alla letteratura, all’arte e alle sue permanenze nella società tardo-moderna. È stato borsista di ricerca presso la cattedra di Letterature Comparate dell’Università di Enna Kore sino al 2018, quando ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per il ruolo di professore associato nelle università italiane. Ha pubblicato saggi e curatele, collabora con Sinestesie, Rivista di Studi Italiani e Letteratura & Società ed è condirettore della collana In-between spaces: le scritture migranti e la scrittura come migrazione per le Edizioni Sinestesie. Ha inoltre pubblicato, tra gli altri, i volumi Herman Melville e Cesare Pavese. Mito, simbolo, destino ed eterno ritorno (2006) e La balena nelle Langhe. Mito ed ermeneutica nell’opera di Herman Melville e Cesare Pavese (2017).
Quando è stato attratto all’opera di Cesare Pavese e per quale motivo articolare?
Ero ancora uno studente della facoltà di Lettere presso l’Università di Catania e cominciavo a pensare alla tesi di laurea. I miei interessi principali erano rivolti alla comparatistica letteraria e allo studio dei temi e miti letterari. L’opera di Pavese era ricchissima di simboli e archetipi e le riflessioni teoriche di notevole modernità. Nella circolarità viziosa del pavesiano “mal di mestiere” [testo non narrativo, raccolto in Feria d’agosto, in cui Pavese descrive il paradosso per cui l’obiettivo della scrittura è di rendere razionale una materia che è sempre irrazionale, ndr] intravedevo i prodromi della circolarità interpretativa tra Mito e Logos che, in seguito, avrei approfondito dal punto di vista storico-filosofico ed epistemologico.
Uno dei suoi interessi di ricerca è il mito in relazione alla letteratura e all’arte. Il mito aveva per Pavese un valore conoscitivo, reso ancora più prezioso agli occhi dello scrittore dal suo essere archetipo. Seguendo quali direttive lei ha studiato il mito in letteratura e come si inserisce Pavese in questo discorso?
Il modello conoscitivo mi è stato offerto proprio dalla riflessione critica di Pavese che, nei Saggi critici, grazie anche alla riflessione di Vico e di tanti antropologi a lui contemporanei, riesce a costruire un modello teorico di elevata modernità dove il Mito e il Logos non sono due momenti opposti della ragione (secondo la vulgata del razionalismo illuminista in voga negli anni del dopoguerra, soprattutto presso le case editrici e le segreterie di partito) bensì complementari, secondo uno schema oggi in voga presso l’ermeneutica filosofica e il paradigma della complessità. Pavese riesce a leggere narratori e antropologi quasi alla stessa stregua e così il suo lavoro di traduttore degli americani e quello di direttore della collana di studi antropologici fondata con Ernesto De Martino (la cosiddetta Collana Viola) diventa quasi complementare e teso a concepire la narrativa secondo un nocciolo mitico-archetipico per cui i racconti sarebbero, vichianamente, giudizi fantastici sulla realtà. Tutto questo percorso intellettuale è documentato nel suo diario dove lo scrittore appunta tutte le sue letture.
Lei ha studiato il rapporto tra Cesare Pavese e Herman Melville nei volumi Herman Melville e Cesare Pavese: mito, simbolo, destino ed eterno ritorno (2006) e La balena nelle langhe. Mito ed ermeneutica nell’opera di Herman Melville e Cesare Pavese (2017). Solitamente, affianchiamo questi due autori perché Pavese tradusse Melville: in che modo lei li ha studiati?
L’influenza della traduzione letteraria non sembra sufficiente a giustificare la consonanza tra i due autori. Pavese non fa mistero delle sue simpatie per Melville: in un’intervista alla radio, rilasciata a pochi mesi dalla morte, lo scrittore chiarisce che Melville è uno dei suoi scrittori preferiti perché concepisce i suoi racconti come “giudizi fantastici sulla realtà”. E nell’introduzione alla traduzione di Moby Dick del 1932 definiva con l’ossimoro “razionalismo platonizzato” l’andamento della prosa melvilliana, tutta contrassegnata da una complementarità tra Mito e Logos e da quel modo narrativo che caratterizzerà la prosa del Pavese maturo, ovvero il realismo simbolico. Il pensiero corre, ovviamente, a Vico. Ma come non evocare gli archetipi junghiani, la cui conoscenza da parte di Pavese è documentata, per descrivere le analogie tra il protagonista de La luna e i falò, Anguilla, e l’Ismaele melvilliano? Entrambi sono orfani e alla ricerca di se stessi e delle proprie radici, in un viaggio che rappresenta per entrambi una sorta di discesa all’Ade. La parola orfano chiude, in posizione enfatica, il romanzo melvilliano e nutrirà l’ispirazione più alta dello scrittore piemontese che riporterà a galla, dal profondo del suo inconscio, l’archetipo junghiano del fanciullo divino.
Quali future direzioni di ricerca potrebbero rivelarsi fruttuose nello studio di Pavese? Personalmente, penso agli studi sul Pavese modernista: l’ottica del mito può adattarsi a questi studi?
Ritengo che i sentieri della critica tematica possano essere ancora battuti. Personalmente ho accostato (e fatto coincidere), nei miei lavori, i termini “tema” e “mito”, attingendo a Jung ma alla luce del paradigma della complessità. Non condivido l’ostilità di tanti critici, bravi nel declinare la critica tematica come Francesco Orlando a esempio, nei riguardi di Jung. Gli archetipi da lui studiati sono espressione di sincronia astorica – questa la critica maggiore rivolta a tale interpretazione – solo se interpretati da un punto di vista marxista, anacronistico perché incapace di cogliere la complessità, non soltanto dell’inconscio (quello junghiano è molto più ricco di simboli di quello freudiano appiattito sul represso e sul complesso di Edipo), ma del fatto letterario tout court. Per fortuna è stata archiviata l’etichetta del Pavese “neorealista”. Per quanto riguarda gli studi sul Modernismo, certamente l’ottica del mito si potrebbe approfondire per arricchirli. Si tratta di una stagione che ha copiosamente attinto al “metodo” mitico, basti pensare a T. S. Eliot.
Sommessamente, però, proporrei di sdoganare Pavese da qualsiasi etichetta o paradigma storico-letterario. Etichette e paradigmi, spesso utili, sono sovente riduttivi per cogliere la complessità degli scrittori. Pavese, ha ragione Tim Parks (curatore di un’edizione americana delle sue opere), è un outsider e, come tale, andrebbe trattato. Si tratta di uno scrittore che riesce ad attingere con molta disinvoltura tanto all’universo dei classici (in tal senso un’opera come Dialoghi con Leucò rappresenterebbe uno straordinario unicum), quanto alla sensibilità e al gusto contemporaneo. E questo grazie alla sua vastissima cultura. Lo scrittore piemontese riesce ad anticipare sensibilità e gusti a venire e il suo modello ermeneutico, delineato nei saggi teorici sul mito, racchiude i prodromi della cultura post-moderna e del paradigma della complessità.
Il valore del mito fu alla base delle incomprensioni e delle critiche sofferte da Pavese da parte degli intellettuali del suo tempo. Eppure, anche chi lo criticava per l’apparente irragionevolezza faceva riferimento ad altri miti. Dopo tutti questi decenni, possiamo affermare che il valore dato da Pavese al mito fosse soprattutto di valore estetico e, da un certo punto di vista, esistenziale?
Alla base insistevano motivi ideologici e quelli della sua sofferta militanza nel partito comunista. Quello della Collana Viola è un esperimento assolutamente d’avanguardia per i tempi e la linea editoriale della Einaudi. E basterebbe rileggere le note introduttive di Pavese per cogliere la sofferenza e la fatica di quel tipo di esperimento editoriale, la fatica dell’appartenere a una “chiesa”, laica, ma pur sempre settaria e poco incline all’indipendenza e alle innovazioni culturali, che allontanavano dalla pedagogia comunista e dalla costruzione dell’egemonia culturale di sinistra che caratterizza l’Italia del tempo. Pavese, è il caso di ribadirlo, era un fuori posto.
Ritengo, infine, che il valore del mito in Pavese non abbia soltanto connotazioni e declinazioni estetiche ed esistenziali ma di carattere ermeneutico e conoscitivo. Da un punto di vista comparatistico si potrebbe inserire nel filone degli studi culturali, indagando i suoi rapporti con l’ermeneutica contemporanea e il paradigma della complessità che hanno scandito il postmoderno, non soltanto letterario ma anche filosofico. Pavese, a suo modo, è anche un filosofo prestato alla letteratura. Un critico che, sulle orme dei maestri – e penso a De Sanctis e Croce – conosce bene il valore degli studi estetici e filosofici applicati alla letteratura. Pavese, oggi, sembra prezioso proprio per questo suo forte impegno teorico teso a rivalutare la critica letteraria, obliterando beghe di carattere provinciale, e a inserirla nel contesto più ampio della Weltliteratur.
“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da un famoso passaggio de La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Settantatre anni dopo il suicidio di Pavese, abbiamo ancora bisogno di lui? Perché?
Un Pavese ci vuole, non foss’altro per riconciliarci con gli studi umanistici e letterari, in un momento di grande crisi mondiale e al riparo dall’ipocrisia della cultura woke e dall’eccesso di politicamente corretto diffusi nella cultura liberal americana. Il pensiero corre alla cancel culture imperante, alla violenza praticata sulle traduzioni di molti classici che richiama il clima distopico descritto da Orwell nel suo 1984. Un Pavese ci vuole per andare controcorrente e difendere i valori umanistici al riparo dalle ideologie imperanti.

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Dialoghi con Pavese: Marie Fabre
Tradurre perché un testo possa continuare a viaggiare: leggi l’intervista alla professoressa Marie Fabre, autrice di una recente traduzione in francese dei Dialoghi con Leucò.

Dialoghi con Pavese: Sara Vergari
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