Francesco Samarini, Philip Roth

Dialoghi con Pavese: Francesco Samarini

Con l’autore di Philip Roth e l’Italia, Francesco Samariniripercorriamo il rapporto tra il gigante della letteratura americana e i grandi autori della nostra, Pavese incluso. 

Francesco SamariniFrancesco Samarini svolge attività di ricerca e insegna corsi di lingua, letteratura e cultura presso il dipartimento di italiano di Dickinson College, negli Stati Uniti. In precedenza, ha completato un dottorato di ricerca in letteratura italiana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (2016) e uno in studi italiani presso Indiana University, Bloomington (2021). È autore di numerosi contributi su tre ambiti principali: la letteratura italiana della prima età moderna (area in cui ha pubblicato, tra le altre cose, la monografia Poemi sacri nel Ducato di Milano, 2017), la letteratura contemporanea e la cultura pop. Nel 2022 ha pubblicato un volume dal titolo Philip Roth e l’Italia. Storia di un amore incostante (Angelo Longo Editore).

Come è nato il tuo libro e come mai ti sei focalizzato proprio su Philip Roth?

Questo volume deriva dalla mia tesi di dottorato presso Indiana University, nella quale mi sono dedicato alle molteplici connessioni tra uno dei maggiori scrittori statunitensi, Philip Roth, e l’Italia. Ho inteso questa relazione in senso molto ampio, prendendo in considerazione diversi aspetti: i rapporti biografici di Roth con l’Italia, dove il romanziere vive per qualche mese nel 1960; la sua conoscenza della cultura e la letteratura italiana; la sua amicizia con alcuni autori italiani. Allo stesso tempo, ho studiato i modi in cui l’autore americano viene tradotto, commercializzato e interpretato dalla critica letteraria italiana nel corso della sua carriera. Ho anche dedicato attenzione alla sua immagine pubblica in Italia, interrogandomi sulle ragioni di una fortuna che conta pochi eguali in altre nazioni. Infatti, uno dei motivi iniziali del mio interesse per Roth è stata proprio la constatazione che, oggi, Roth è forse più noto in Italia che negli Stati Uniti. L’obiettivo principale della mia ricerca è quindi quello di ricostruire un rapporto complesso e sfaccettato, caratterizzato da molti alti e bassi (l’“amore incostante” di cui parla il sottotitolo del libro), al fine di determinare come si sia arrivati alla situazione attuale. Il caso della ricezione italiana di Roth mi è sempre sembrato peculiare e significativo, ma forse non sufficientemente analizzato dalla critica: la mia ricerca intende quindi colmare questa lacuna. In aggiunta, devo confessare che Roth è uno dei miei scrittori preferiti, sin da quando, durante le scuole superiori, lessi per la prima volta un suo romanzo, Lamento di Portnoy.

Nel libro ricordi il legame che ha unito Roth a un grande intellettuale italiano come Primo Levi: li univano le comuni radici ebraiche e la scrittura, anche se forse Roth non riuscì a capire Levi fino in fondo a livello umano (lo vide poco prima del suicidio). Cosa puoi dirci al riguardo?

L’analisi della relazione tra Roth e Levi occupa una parte significativa del mio libro: l’immagine che ho scelto per la copertina del volume, tra l’altro, è una fotografia dell’incontro tra i due autori. Levi è sicuramente lo scrittore italiano che Roth conosce meglio, anche a livello personale. Roth scopre le opere di Levi negli anni ’80 e si appassiona alla lettura di un autore a cui guarda, fin da subito, con enorme ammirazione. I due si incontrano per la prima volta a Londra, nel 1986. Da quel momento, ha inizio una corrispondenza che culmina con la visita di Roth a Torino nello stesso anno, con lo scopo di intervistare Levi per il New York Times Book Review. Il dialogo che ne scaturisce è di grande profondità, tanto umana quanto letteraria: Roth dimostra una comprensione profonda dei moventi della scrittura di Levi, che, dal canto proprio, apprezza la capacità di analisi del collega americano. Roth percepisce un’immediata connessione con l’interlocutore, con il quale si mantiene in contatto anche nei mesi successivi. A Roth, Levi sembra una persona sostanzialmente serena: per questo motivo, la notizia della sua morte, interpretata immediatamente come un suicidio, lo scuote violentemente e lo getta nello sconforto. Roth si rende conto di essersi soltanto illuso di avere davvero conosciuto Levi; nel mio libro, ipotizzo che le riflessioni sulla morte dello scrittore italiano siano, almeno in parte, alla base delle celebri pagine di Pastorale americana in cui si discute proprio della fondamentale impossibilità di conoscere realmente il prossimo.

Il tuo libro ha qualcosa in comune con il Pavese traduttore: anche lui tentò di portare la letteratura americana in Italia, specialmente in un periodo difficile come quello della dittatura fascista. Qual è stato il rapporto di Roth con l’Italia, a livello di traduzione e di un suo coinvolgimento personale?

Innanzitutto, è necessario premettere che l’Italia è il primo Paese straniero in cui le opere di Roth vengono tradotte: il suo libro d’esordio, Goodbye, Columbus, esce nel 1959 negli USA e appare in Italia già nel 1960. L’editore Valentino Bompiani comprende immediatamente il potenziale del giovane scrittore, di cui pubblica quasi tutte le edizioni italiane fino agli anni ’80. Roth si interessa spesso della trasposizione in italiano delle proprie opere (lo scambio epistolare con Bompiani ci informa, per esempio, delle sue richieste riguardo all’uscita italiana del primo libro), ma i suoi interventi diretti sono limitati, dal momento che non conosce la lingua italiana. Un caso particolare è quello del suo primo best-seller, Lamento di Portnoy, che Bompiani pubblica nel 1970, un anno dopo l’uscita americana. Anche in questo caso, la corrispondenza tra l’editore e l’autore ci fa comprendere meglio i retroscena di una pubblicazione a dir poco travagliata: intimorito dalla concreta minaccia della censura, Bompiani cerca infatti di convincere Roth a tagliare le parti più scabrose del romanzo, ottenendo però un netto rifiuto. Alla fine, il testo esce in versione integrale e non viene colpito da alcun provvedimento, raggiungendo, anche in Italia, l’enorme popolarità ottenuta negli States. Negli anni successivi, persino nei momenti di minore fortuna di Roth presso il pubblico italiano, le sue opere vengono puntualmente tradotte. Dopo la rinascita dell’interesse nei suoi confronti seguita al successo di Pastorale americana, le edizioni e riedizioni italiane si moltiplicano, a volte con nuove traduzioni volte a svecchiare quelle proposte nelle prime uscite.

Parlando di Pavese, nel libro scrivi che, in un’intervista del 1986, Roth ha dichiarato: “Alla fine degli anni ’50 ho cominciato a leggere Pavese”. Inoltre, nel suo libro Teatro di Sabbath del 1995, il protagonista Mickey Sabbath sta contemplando il suicidio e menziona, tra gli artisti che si sono suicidati, anche Pavese (“Pensava che era arrivato il momento di fare quel salto. Mishima. Rothko. Hemingway. Berryman. Koestler. Pavese. Kosinski. Arshile Gorky. Primo Levi. Hart Crane. Walter Benjamin”). Come possiamo interpretare il rapporto tra Roth e Pavese?

Cesare Pavese fa parte delle letture di Roth già a partire dagli anni giovanili, ma è nel periodo passato a Roma nel 1960 che lo scrittore approfondisce la propria conoscenza della letteratura italiana, leggendo molti importanti autori del Novecento, come Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani, Ignazio Silone, Alberto Moravia, Carlo Levi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ovviamente, Roth legge i testi in traduzione inglese, non conoscendo l’italiano. Un importante ruolo di intermediario tra Roth e la letteratura italiana è svolto da un amico americano conosciuto nel periodo romano, il traduttore Ben Johnson, che lavora anche su testi di Pavese nel corso della propria carriera. Tra gli anni ’80 e ’90, Roth si occupa spesso del tema del suicidio, che viene trattato in alcuni romanzi come Il teatro di Sabbath, in cui il protagonista si interroga sulla possibile correlazione tra la grandezza artistica e la scelta di farla finita. In questo contesto, Pavese entra inevitabilmente a far parte delle riflessioni dello scrittore, assieme ad altri personaggi molto ammirati che hanno scelto di togliersi la vita. Un posto di assoluto rilievo in questo gruppo di grandi artisti e letterati è naturalmente ricoperto da Primo Levi, il cui gesto estremo colpisce Roth molto da vicino.

Nel libro scrivi che, nel catalogo dei suoi libri donati da Roth alla Newark Public Library, rientrano anche alcuni libri di Pavese. Quali sono? Come potremmo studiarli per approfondire il rapporto di Roth con Pavese?

Il catalogo della biblioteca personale di Roth è uno strumento di grande interesse per chi voglia approfondire le letture del romanziere, tenendo sempre presente che queste si estendono molto oltre i titoli lì elencati. Tra gli scrittori italiani, Primo Levi è di gran lunga l’autore più presente, affiancato da numerosi altri nomi, da Dante Alighieri a Italo Calvino. Nella lista, compaiono le traduzioni in lingua inglese di alcune opere di Pavese: La luna e i falò, Feria d’agosto, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, Il mestiere di vivere. L’interesse per la vicenda personale dello scrittore italiano è testimoniato anche dalla presenza della traduzione del libro di memorie di Davide Lajolo, Il vizio assurdo, che descrive il lungo rapporto di amicizia con Pavese. Nel mio libro approfondisco la conoscenza della letteratura italiana da parte di Roth basandomi sui suoi scritti, sulle interviste e su documenti inediti; tuttavia, mentre realizzavo il volume, la biblioteca personale dello scrittore non era ancora aperta al pubblico (l’inaugurazione risale al 2021), e questo mi ha impedito di accedere direttamente ai libri della sua collezione. Parlando di progetti di ricerca futuri, ho intenzione di occuparmi di un altro aspetto del rapporto di Roth con i libri di autori italiani, esaminando le sue note di lettura sui volumi disponibili presso la Newark Public Library.

“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da un famoso passaggio de La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Settantadue anni dopo il suicidio di Pavese, abbiamo ancora bisogno di lui? Perché?

La mia risposta è certamente sì, ma vorrei rispondere alla domanda allargando un po’ il discorso e andando al di là dell’indiscusso valore letterario di Pavese, a proposito del quale sarebbe altissimo il rischio di esprimere delle banalità. Studiando il rapporto di Roth con l’Italia, infatti, mi sono reso conto della sostanziale assenza (pur con qualche eccezione), nell’epoca contemporanea, di autori italiani in grado di superare i confini nazionali, entrando a far parte di un discorso letterario, per così dire, globale. Se, ancora negli anni ’80, scrittori come Levi sono in dialogo con altri grandi autori della letteratura mondiale, l’impressione è che la letteratura italiana di oggi sia generalmente insulare e spesso non in grado di comunicare con un pubblico più ampio. Si sente la mancanza di nuovi autori che sappiano, come Pavese, portare la letteratura italiana nel mondo, rendendola, di fatto, non più soltanto “italiana”. Allo stesso tempo, Pavese contribuisce a introdurre la letteratura americana in Italia, rendendola parte della cultura italiana. Forse, è (anche) di questo tipo di “internazionalità” che abbiamo bisogno oggi.

Intervista a cura di Iuri Moscardi

 
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