Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato il ricercatore Pietro Montorfani, che per Il Saggiatore ha curato e ripubblicato la traduzione incompiuta dell’Antologia di Spoon River del poeta Antonio Porta.
Pietro Montorfani è un intellettuale e ricercatore svizzero di lingua italiana. Dopo alcune esperienze accademiche in Italia, negli Stati Uniti e in Germania, dal 2010 lavora a Lugano, prima come responsabile dell’Archivio civico e poi della Biblioteca Salita dei Frati. Come studioso, si è concentrato sulla letteratura italiana del Rinascimento (Lodovico Dolce, Pomponio Torelli, Torquato Tasso) con alcune incursioni anche nell’Otto-Novecento (Alessandro Manzoni, Eugenio Montale, Piero Chiara, Antonio Porta, Giorgio e Giovanni Orelli). Dirige la rivista «Cenobio» e collabora con «Azione», «Corriere del Ticino» e Domenica del «Sole 24 Ore». Nel 2016 ha curato e pubblicato la traduzione dell’Antologia di Spoon River del poeta Antonio Porta (Il Saggiatore), originariamente pubblicata nel 1987.
Photo: Igor Grbesic
L’Antologia di Spoon River continua a rappresentare un incredibile caso di long seller in Italia, Paese dove il libro non venne originariamente pubblicato. Da studioso e critico di letteratura italiana, come spieghi il successo così duraturo di questa raccolta tra i lettori italiani?
Credo che in generale il successo di un libro presso più generazioni di lettori, tanto più in un ambito difficile quale è sempre quello della poesia, si debba a una molteplicità di fattori: icasticità, efficacia, memorabilità, ma anche forza dell’espressione e unicità del messaggio. In una parola, andare dritti al cuore. L’Antologia di Spoon River possiede tutte queste caratteristiche, che non hanno ad esempio le Elegie duinesi di Rilke o la Terra desolata (o “devastata”, come propone oggi Carmen Gallo) di Thomas S. Eliot, non da ultimo perché molto più oscure nel dettato e nei riferimenti culturali. Ascoltare invece qualcuno che parli, con schiettezza e a volte persino con cinismo, dal “di là” della morte, è una condizione semplice da cogliere, che mette subito il lettore in una posizione adatta a recepire il messaggio del testo. Nel caso poi dei lettori italofoni, cresciuti con Dante e, dietro di lui, con i viaggi nell’Ade di Ulisse ed Enea, questo esercizio di ascolto risulta ancora più facile e naturale.
La versione italiana dell’Antologia ha subìto continui cambiamenti: la sua prima traduzione fu una selezione delle poesie originali, poi negli anni i traduttori hanno spesso cambiato la forma delle poesie. Senza dimenticare Spooniade ed Epilogo, quasi sempre assenti. Quale fu l’approccio di Antonio Porta alla struttura macrotestuale e quale forma gli diede per i lettori italiani?
Hai ragione: per vari motivi, anche di scarsa attenzione filologica nei confronti delle versioni originali o commentate uscite via via negli Stati Uniti, il capolavoro di Edgar Lee Masters è stato introdotto in Italia a spizzichi e bocconi. Il motivo si deve innanzitutto ai primi iniziatori di questa tradizione, Cesare Pavese e Fernanda Pivano, che hanno molti meriti ma non, appunto, quello dell’ecdotica [critica testuale, ndr]. Il successo straordinario delle prime prove ha poi fatto il resto: quando un testo poetico incontra da subito migliaia di lettori, la filologia finisce inevitabilmente per farsi da parte. Anche per questa ragione, per decenni, non abbiamo letto in Italia la Spooniade, che Masters considerava parte integrante del libro, pur essendo una sorta di testo semi-epico, con i medesimi personaggi dell’Antologia, ma con un taglio decisamente meno innovativo. Non parliamo poi dell’Epilogo, che è anche peggio, con la sua impostazione visionaria e le sue modalità teatrali. Un terzo linguaggio in poche pagine. Antonio Porta, oggi lo sappiamo, aveva l’ambizione di restituire l’opera di Masters nella sua interezza: ci lavorò assieme alla moglie Rosemary Ann Liedl, americana di origine e agente letterario per professione, senza riuscire purtroppo a portare a termine le traduzioni (che ho poi dovuto completare io, partendo da suoi appunti e abbozzi).
La traduzione di Porta fu, come scrivevi nell’introduzione, «un testo firmato da un poeta» e risentì del contesto storico in cui venne pubblicato, ovvero gli anni Ottanta e le loro prime aperture alla globalizzazione. Quali aspetti della traduzione di Porta sono più originali rispetto alle traduzioni precedenti e in quale modo, secondo te, la sua traduzione risente dello stile del Porta poeta?
In effetti quando Porta, rispondendo a un suggerimento della Mondadori, si accinse a tradurre di nuovo Spoon River era già un poeta affermato e un operatore culturale di grande esperienza: collaborava a riviste, dirigeva collane letterarie, organizzava serate di poesia (ma faceva anche l’editor, il talent scout, e mille altre cose). Era insomma un intellettuale pienamente calato nel suo tempo, nella temperie culturale degli anni Ottanta. Dico questo perché la sua traduzione, se ha un merito, è proprio l’aderenza a una certa dimensione culturale, che è insieme italiana e internazionale. Tra le molte cose che mi hanno colpito, ad esempio, è stata in alcuni casi la sua scelta di non tradurre (alcune parole, alcuni nomi). Nel 1987 l’inglese era oramai stabilmente parte della cultura italiana, anche soltanto quale riferimento sottotraccia. Consapevole di questo, ma anche del fatto che la poesia doveva parlare direttamente al lettore, senza troppi giri retorici o ammiccamenti colti, Porta propose una sua versione molto schietta e molto “terra a terra” (passami il termine), in tutto simile alla poesia che faceva lui, che era in una certa misura ancora figlia della rivoluzione letteraria del 1963 [il Gruppo 63 fu un movimento intellettuale di neoavanguardia che contestava i modelli letterari dominanti e in particolare il neorealismo, ndr] – anche se poi lui ebbe un’evoluzione molto personale, che lo allontanò da quel gruppo d’avanguardia. Memorabile resta, a tale proposito, una poesia di Yellow (2002) dedicata proprio a Edoardo Sanguineti: «Se anche sapessi, e forse so, / che il destino nostro è niente / ma se una donna ascolto dietro una parete / o un suono dei passi sull’ultimo selciato / o una risata schietta, senza fretta / o bacio una bimba che dice: io non sono malata, / al gioco del massacro allora non ci sto, / preferisco del linguaggio quel che ha di divino / e non m’importa, amici, di ciò che direte, / parlo da ingenuo (come Freud), do per scontato / il male e cerco il bene, disperata-mente».
Come giudichi gli sforzi di Pavese e Pivano, a un livello di resa di contenuto e di stile, nel loro tentativo di dare ai lettori italiani un libro che consideravano fondamentale?
Resto convinto che ogni opera di traduzione sia, nel bene e nel male, figlia di un tempo preciso e di un preciso contesto storico e culturale. La Spoon River di Pivano non fa eccezione. È pionieristica, entusiastica, a tratti persino garibaldina e incosciente (ci sono alcuni errori grossolani), ma nonostante questo non riesce a uscire da un’Italia in cui ancora si stampavano sulle copertine i nomi di “Giulio” Verne o di “Guglielmo” Shakespeare. Pivano tradusse persino le marche di sigari o i nomi dei dolci locali: «fumavo Aquile Rosse […] mangiar torta scottante» (i sigari «Red Eagle» e la «hot pie» di Cooney Potter). Quella era l’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta. Mezzo secolo più tardi, un poeta attento al linguaggio della modernità come Antonio Porta non poteva più permettersi uno stile del genere, così demodé e così vintage. Senza nulla togliere, naturalmente, ai grandi meriti della coppia di traduttori iniziali. Purtroppo le traduzioni invecchiano, c’è poco da fare. Ma forse è anche il loro bello.
Tra i motivi che hanno determinato il successo di questo libro in Italia ci sono stati la forma apparentemente “facile” delle poesie e il tono di umana complicità che i personaggi esprimono. Quali elementi del testo (stile o contenuto) continuano a esercitare fascino sul pubblico italiano e stimolano gli editori a proporre nuove traduzioni del libro?
Non bisogna nascondersi il fatto che, dietro ogni nuova proposta di traduzione (storica, d’autore, rifatta ex novo, ecc.), ci sia anche una piccola o grande operazione commerciale. Per il fatto che le traduzioni invecchiano, il turnover in questo caso è maggiore rispetto – che so – a quello delle edizioni critiche o commentate. Il caso di Porta, in quegli anni, non fu isolato: aveva cominciato già Letizia Ciotti Miller per Newton Compton nel 1974, e nel 1986 era uscita la traduzione di Alberto Rossatti per Rizzoli. Luciano Paglialunga ne propose un’altra per Piemme nel 1996 e nel 2001 sarebbe arrivata anche la versione di Alessandro Quattrone (tra le mie preferite), ora nel catalogo Giunti. Infine – ed è il motivo per cui il Masters di Porta non compare più nei titoli di Mondadori – la nuova versione di Luigi Ballerini, un traduttore di grande esperienza, che ben conosce la cultura letteraria statunitense. Ognuna di queste – non tutte allo stesso modo – offre una diversa angolatura, e in quanto tale è preziosa. Non credo comunque che il primato Pavese-Pivano verrà mai messo in discussione, proprio per la valenza storica del loro sforzo (Antonio Porta, ahimè, da questo punto di vista rischia forse qualcosa in più).
“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Quasi settantacinque anni dopo il suicidio di Pavese, secondo te abbiamo ancora bisogno di lui come uomo o come intellettuale? Perché?
Di Pavese, e di uomini come lui, avremo sempre bisogno perché testimoniano nei fatti, nelle difficoltà, nelle contraddizioni della loro esistenza tormentata, che cosa significhi essere veramente liberi. Mi ha colpito molto la questione del Taccuino segreto riscoperto e curato da Lorenzo Mondo nel 1990 e riproposto poi da Francesca Belviso per Aragno nel 2020. Si tratta naturalmente di una materia incandescente, ai limiti del pettegolezzo che Pavese aborriva. Ma è anche un documento storico importante, una lucida testimonianza di un tormento culturale e di un’apertura mentale che noi oggi fatichiamo a capire e ad accettare, perché abituati a distinguere tutto in bianco e nero, fascisti e antifascisti, il ventennio dal dopoguerra, ecc. Fosse anche soltanto per questo (ma in realtà è molto), un Pavese ci vorrà sempre, anche io non ho dubbi su questo.
Intervista a cura di Iuri Moscardi

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