Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato Luigi Ballerini, docente, poeta e autore della traduzione italiana completa dell’Antologia di Spoon River per Mondadori.
Luigi Ballerini è una straordinaria figura di connessione culturale e letteraria tra l’Italia e gli Stati Uniti. Per decenni ha infatti insegnato letteratura italiana negli USA (a UCLA a Los Angeles prima, a CUNY e alla New York University sulla costa opposta dopo), contribuendo non poco a diffondere la fama di scrittori e soprattutto poeti contemporanei. Oltre che docente, Ballerini è infatti un rinomato poeta, che fin dalla prima raccolta del 1972 eccetera. E continua a sperimentare con il linguaggio. Infine, è da sempre un instancabile agitatore culturale che promuove convegni, giornate di studio, libri e traduzioni. Con la sua intervista continuiamo la serie dedicata a Spoon River, iniziata con l’intervista a Jason Stacy e proseguita con quella a Julianne VanWagenen. Nel 2016, Ballerini ha infatti tradotto l’Antologia di Spoon River per l’editore Mondadori, dando finalmente ai lettori italiani la versione completa del libro, comprensivo della Spooniade finale. In questa intervista abbiamo discusso del suo approccio alla traduzione di un libro da lui sempre sentito distante per stile poetico e abbiamo ipotizzato quale potrà essere il suo futuro tra i lettori italiani.
Ha vissuto e lavorato per decenni negli Stati Uniti ma è sempre rimasto in contatto con la scena culturale e letteraria italiana. Come spiega il successo enorme e apparentemente senza fine dell’Antologia di Spoon River tra i lettori e le lettrici italiani e italiane?
Credo che i motivi dietro a quello che sembra un successo senza fine si siano trasformati in maniera significativa lungo gli anni. Inizialmente, ai lettori di poesia piacque il fatto di trovare finalmente un libro di poesie che non celebrasse farfalle o gigli bianchi (men che meno telefoni bianchi). Pavese condusse questi lettori assetati verso un’acqua che erano impazienti di bere. Poi, Pavese stesso divenne un mito che diede grande impulso non solo alla sua scrittura ma a praticamente tutto ciò che propose a livello editoriale in quanto membro più eminente del gruppo Einaudi. Il suo lascito, che fu in seguito sostenuto da Fernanda Pivano, iniziò a declinare negli anni ’60 e ’70 e Edgar Lee Masters divenne una merce al pari della musica leggera. Molti sono venuti a sua conoscenza attraverso Fabrizio de André che mise in musica, talvolta riarrangiandone le parole, una manciata di poesie dell’Antologia di Spoon River. Il titolo del suo album è un colpo di genio di marketing: Non al denaro non all’amore né al cielo. Come si poteva non esserne attratti? Non c’è dubbio che la popolarità italiana dell’intera opera di Masters ne beneficiò. Se, fino a quel punto, tale voce coincise, si avvicinò o – più probabilmente – si allontanò dall’originale è qualcosa su cui non dovemmo mai smettere di discutere. Quello che è successo dopo è un mistero, per me. Posso solamente supporre che quei lettori disperati che non vogliono impegnarsi e che vedono la poesia come un comfort food si sono fatti raggirare dalle sue caratteristiche più superficiali e legate al contenuto. Mi riferisco a quelle persone che pensano di avere un’esperienza poetica solo perché si sentono vicine agli intrighi che occupano la scena nella “cospirazione” della poesia. Questo potrebbe essere l’approccio prevalente oggi, che va di pari passo con il cosiddetto primato dell’individuo: non ho mai visto così tante persone identiche, tutte convinte di essere uniche.
Quali motivi hanno spronato la sua scelta di pubblicare una nuova traduzione del libro nel 2016, 70 anni dopo la sua prima traduzione italiana?
Fu Antonio Riccardi, all’epoca direttore letterario di Mondadori, a chiedermelo: l’editore aveva perso i diritti per la ristampa della traduzione di Antonio Porta e non voleva che questo titolo uscisse dal loro catalogo. Inoltre, volevano una traduzione fatta da uno dei loro poeti, che avesse una qualche conoscenza delle lettere americane, e io sembravo la figura adatta. All’inizio declinai ma Antonio insistette e alla fine accettai. Per molte ragioni: alcune possono essere immediatamente verificate con chiarezza e altre le afferrai dopo aver saggiato un libro che è molto più problematico di quanto a prima vista possa apparire. La traduzione di un testo basato su un uso prima di tutto referenziale del linguaggio pone una sfida maggiore rispetto a trasporre in un’altra lingua un testo motivato in gran parte da tentazioni fonostilistiche. Avendo tradotto sia Gertrude Stein che Herman Melville, ho scoperto che la poesia discontinua della prima è stata più “facile” da ricreare in italiano rispetto alla precisione superbamente concisa della prosa di lui, a volte simile a quella di Tacito. E questo nonostante la prevalente struttura polisillabica del lessico italiano, che è l’opposto del ritmo mono o bisillabico della lingua inglese. Per quanto riguarda la poesia tendo a essere abbastanza esigente e Edgar Lee Masters non era mai apparso sul mio radar. Affrontarlo, immaginavo, sarebbe stato come imbarcarsi in un’avventura archeologica: sarebbe stato come visitare una chiesa cristiana sperando di scoprire le rovine del tempio pagano sopra a cui era stata costruita. In fin dei conti, tuttavia, questa motivazione ha avuto un ruolo secondario e ho iniziato a essere visitato dal desiderio di scendere a patti con un genere che è lontano chilometri del mio ma che condivide la mia repulsione per le rimostranze egocentriche che affliggono tanta parte della poesia contemporanea. Dopo tutto, l’Antologia di Spoon River è poesia con dentro la Storia, come Pound – uno dei primi a recensire il libro – avrebbe detto. Non esattamente poesia neo-epica, certo, almeno nel senso di un più grande poeta del Midwest come Carl Sandburg, ma significativa non semplicemente come un documento da cui estrarre informazioni storiche non disponibili nei documenti storici “ufficiali” ma anche come un’opportunità per scavare più a fondo nella natura delle parole impiegate senza fuggire spaventati da una retorica eccessivamente barocca e da forme di predicazione eccessivamente sciolte. Edgar Lee Master ha avuto un effetto molto rassicurante, perversamente omeopatico sulla mia stessa scrittura. Non posso negare che, alla fine, una nuova traduzione fosse anche necessaria per correggere anche solo alcuni tra i più vistosi errori annidati nelle edizioni precedenti dell’opera. Per esempio, in una delle poesie una donna era diventata un uomo: sospettando che i sessi fossero più chiaramente distinguibili all’epoca dell’Antologia di Spoon River rispetto a come lo sono ora, l’ho ricondotta al suo genere.
Quali sono le più rilevanti innovazioni che il suo libro ha introdotto nella struttura generale del volume?
È curioso parlare di innovazione, parlerei piuttosto di restauro. La mia traduzione si è basata sull’edizione dell’Antologia di Spoon River curata da John E. Hallwas nel 1993 che, se non completamente critica, è sicuramente annotata molto coscienziosamente. I miei predecessori o non l’avevano avuta a disposizione oppure hanno scelto di ignorarla: venne sicuramente ignorata dagli editori di Einaudi, che continuano a ristampare la vecchia traduzione di Pavese e Pivano. Un’altra caratteristica della mia traduzione è la sua completezza. Il frammento conclusivo, un testo angoscioso e fintamente eroico con cui la raccolta si conclude, era stato precedentemente omesso. Tenere fuori La Spooniade, come è intitolata, è a mio parere un grande errore perché toglie quella patina angosciosa che copre l’intero libro. Vorrei aggiungere che, ogni volta ho ritenuto fosse utile per una più piena comprensione del testo, non mi sono astenuto dal fornire le singole poesie di annotazioni linguistiche, retoriche e storiche. Sperando di non avere aggiunto errori miei, infine, ho corretto i non pochi errori fatti dagli altri.
Molti studiosi – inclusa Julianne VanWagenen – hanno dimostrato come il successo dell’antologia tra i lettori italiani del 1943 fu dovuto all’incomprensione del suo contenuto reale: il libro venne tradotto sotto il fascismo e per questa ragione gli italiani videro nelle voci dei defunti un richiamo alla libertà di cui il regime li aveva privati. Ma questi personaggi incarnavano un messaggio politico reazionario dal momento che l’ideale politico di Masters era l’America di Jefferson, che economicamente si basava sulla schiavitù. Andò davvero così? Ha provato a cambiare questa percezione?
Prima di tutto non dobbiamo mescolare i sentimenti ideologici di Masters e il suo impulso psicologico con quelli dei suoi personaggi, sebbene questa possibilità possa in alcuni casi insinuarsi da sé. Una delle lezioni più importanti che possiamo trarre dall’Antologia di Spoon River viene dall’incessante denuncia da parte dell’autore dell’ipocrisia che permea le vite degli abitanti della cittadina. Si vedano per esempio tutte le poesie che invocano attività festose (cantare, bere, ballare la quadriglia al suono di un violino, eccetera) e strigliano la presunta austerità mostrata dai membri della nascente borghesia ricca. Alcuni personaggi sono reazionari e altri no ma non penso per nulla che Masters desse la sua benedizione ai membri del primo gruppo. C’è infatti un ritratto non molto incoraggiante di un nero, per nulla encomiabile da un punto di vista sociale, ma non esiste alcuna indicazione di un sostegno da parte dell’autore. In ogni caso, ignorare o negare l’esistenza di sentimenti suprematisti nella società di Spoon River al tempo di Masters sarebbe molto più grossolano. Inoltre, ciò non ha nulla a che fare con la poesia. Lo sforzo di Masters fu di rendere sostenibile, attraverso campioni poetici di realismo, uno strumento comunicativo che avrebbe permesso agli uomini di interagire “spiritualmente” e non solo “materialmente”. Questo, penso, attrasse Pavese. Riguardo alle idee di Masters, sì, non apprezzava la politica di Lincoln e non condannò il piano creato per proteggere interessi finanziari molto specifici, che furono la vera causa principale della Guerra Civile. Questo non significa che considerasse in maniera favorevole la schiavitù. La sua opinione, magari non sublime ma sicuramente basata sulla realtà, era che la schiavitù sarebbe terminata da sola perché non era più economicamente praticabile, e sicuramente condannò un bagno di sangue in cui il numero dei morti superò di gran lunga quello degli schiavi liberati. Non dimentichiamo che la guerra venne dichiarata nel 1861 e che il tema della schiavitù non venne considerato tra le sue cause: questa apparve nel 1863, dopo due anni di guerra. Che ne dici?, avrebbe detto Humphrey Bogart.
Lei è un poeta e un traduttore. Come giudica gli sforzi di Pavese e Pivano nel dare ai lettori italiani la prima traduzione di queste poesie nel 1943?
Eroici, niente meno che eroici. Pavese ha molti meriti come scrittore, traduttore, editore, un intellettuale sotto ogni punto di vista, e la traduzione in italiano dell’Antologia di Spoon River è una chiara testimonianza di molti di questi perché si trattava proprio di ciò di cui la poesia italiana aveva bisogno. All’epoca (1943) molti poeti italiani erano alla macchia, mimetizzati da ermetisti. Pochissimi osarono alzare la testa e più di un decennio sarebbe dovuto passare prima che suonasse l’allarme delle proposte neorealiste di Pasolini. Molto è stato detto riguardo alla cooperazione di Pavese e Pivano e ora siamo abbastanza certi che le revisioni fatte da Pavese di ciò che Pivano preparò per la pubblicazione sono così numerose e profonde che lui dovrebbe essere riconosciuto come co-traduttore. Tu lo sai meglio di chiunque altro avendo avuto l’opportunità di studiare il manoscritto che in anni recenti è stato rimosso dall’archivio di Pivano causando ogni sorta di congetture, tra cui la plausibile indiscrezione che il suo esame avrebbe chiaramente sconfessato la dichiarazione di Pivano di aver condotto la traduzione senza l’aiuto di Pavese. Sia quel che sia, è spiacevole che Einaudi continui a stampare una versione dell’Antologia di Spoon River che, nonostante gli interventi editoriali di Pavese, rimane deturpata da notevoli incomprensioni e sviste. L’eroismo di cui parlavo andrebbe ammirato e messo in una prospettiva storica invece che sfruttato commercialmente.
L’Antologia di Spoon River venne originariamente pubblicata nel 1915 negli USA. Pensa che continuerà a trovare lettori, specialmente in Italia, nei prossimi anni e decenni o che verrà progressivamente dimenticata da lettori e critici, come accaduto negli USA?
L’idea che l’Antologia di Spoon River in Nord America sia stata accantonata è solo parzialmente corretta. Il filo della sua vita non è stato tagliato del tutto, specialmente nell’America semirurale, da cui il libro prese le mosse nel 1915. Non più tardi del 2020 è stata adattata per il teatro e rappresentata alla Lakeshore House di Manitowoc, in Wisconsin, il 12, 13 e 14 novembre. Inoltre, ci sono registrazioni più o meno ufficiali del libro che le persone possono ascoltare online. Edizioni complete dell’antologia, per esempio di Penguin, continuano a essere disponibili in libreria e su Barnes and Noble e Amazon. Tuttavia, è abbastanza ovvio che l’apice del suo successo sia ormai passato e che brani scelti dell’antologia siano diventati sempre più rari persino nei manuali scolastici. L’incuria riguardo a questo libro deve essere attribuita alla decrescita notevole dell’attenzione data alla poesia in generale. La responsabilità di questo penoso stato ricade primariamente, secondo me, sulle spalle di quegli educatori che non sono riusciti a far capire ai loro alunni quanto elevato può essere il linguaggio se usato a un livello poetico nella formulazione di tipi di verità che non possono essere dimostrate ma che, allo stesso tempo, non possono nemmeno essere smentite. In quanto tali, trascendono le forme meramente strumentali di verità in cui siamo pietosamente immersi un giorno sì e l’altro no. Considerando che altre due “nuove” traduzioni sono state pubblicate dopo la mia, si potrebbe supporre che il futuro dell’Antologia di Spoon River sia più luminoso in Italia che negli Stati Uniti. Presumendo anche che il conflitto tra la wilderness della frontiera e la “civilizzazione” avanzante (da esploratori commercianti in pelle a coltivatori e contadini, ad avvocati) – che sta esattamente al centro di molte delle poesie e che non è più così sentito in America – possa ancora risuonare inconsciamente, come una nostalgia subliminale, in un Paese come l’Italia dove conflitti di questo genere e la loro mitologia sono stati sepolti da tempo (c’è ancora qualcuno che legge Le terre del Sacramento di Francesco Jovine?), immagino che nuove traduzioni dell’Antologia di Spoon River continueranno a essere pubblicate. Cui prodest?
“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Quasi settantaquattro anni dopo il suicidio di Pavese, secondo te abbiamo ancora bisogno di lui come uomo o come intellettuale? Perché?
Non uno, ma due o forse anche tre Pavese sarebbero di gran beneficio alla nostra tormentata repubblica delle Lettere, e soprattutto al suo quartier generale editoriale. Immagino che, se Pavese fosse vivo, si opporrebbe con severità a gran parte del catalogo della sua amata Einaudi. Mi piace pensare che, sotto la sua gestione, gran parte di ciò che oggi viene etichettato come fiction e probabilmente tutto ciò che viene pubblicato per soddisfare la curiosità morbosa di lettori affetti dalla celebrità finirebbe nella sua destinazione ideale, ovvero il cestino. In un periodo in cui sempre meno persone leggono, e quelle poche leggono sempre di più, le sue opinioni e il suo giudizio mostrano un coraggio e un senso di responsabilità che sembra essere svanito dal radar editoriale delle principali case editrici. Fortunatamente, esiste una pletora di significative case editrici più piccole che hanno invaso il mercato della lettura senza soccombere alla tentazione del successo immediato. Naturalmente, Pavese rimane parte essenziale del discorso letterario odierno in quanto autore di fondamentali libri, come La luna e i falò e I dialoghi con Leucò. Non credo che verrà ricordato come grande poeta, nonostante i suoi sforzi per espandere la piattaforma lessicale della scrittura poetica vadano apprezzati. Curiosamente, molto può anche essere appreso dai suoi saggi sulla letteratura americana, sia come modalità per penetrare nei testi che analizzò sia come indici di un’epoca. Riguardo a ciò, sebbene non identificabile specificamente come saggio ma piuttosto come un pamphlet dal finale aperto, Il mestiere di vivere è una lettura essenziale per chiunque non voglia confondere l’origine del mondo con il proprio compleanno.
Intervista a cura di Iuri Moscardi
Dialoghi con Pavese: Roberto Ludovico
Non solo uno studioso di Cesare Pavese, ma prima di tutto un suo lettore: per Dialoghi con Pavese abbiamo intervistato il professor Roberto Ludovico.
Dialoghi con Pavese: Francesco Samarini
Con l’autore di “Philip Roth e l’Italia”, Francesco Samarini, ripercorriamo il rapporto tra il gigante della letteratura americana e i grandi autori della nostra, Pavese incluso.
Dialoghi con Pavese: Sara Vergari
Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato la ricercatrice Sara Vergari, autrice del saggio Un “Pavese solo”.