Dialoghi con Pavese - Sara Vergari

Dialoghi con Pavese: Sara Vergari

Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato la ricercatrice Sara Vergari, autrice del saggio Un “Pavese solo”.

Dialoghi con Pavese - Sara Vergari

Sara Vergari è una dottoranda in studi italiani presso l’Università di Aix-Marsiglia, in Francia, dove si occupa di poesia del Novecento dagli anni ‘70 in poi indagando le antologie d’autore di poesia contemporanea come strumento critico. Ha conseguito la laurea triennale in Lettere moderne a Firenze con una tesi su Ingeborg Bachmann, un’autrice austriaca allora poco considerata ma riscoperta recentemente, e la laurea magistrale in Filologia moderna all’Università Cattolica di Milano, dove si è laureata con il prof. Giuseppe Langella discutendo una tesi su Cesare Pavese. Ha lavorato nel mondo editoriale e svolto periodi di ricerca in Francia, nello specifico a Parigi. Da circa due anni si occupa della ricezione e del recupero della poesia delle donne attraverso articoli, interventi in convegni e curatele. Nel 2021 ha pubblicato il libro Un “Pavese solo”. Percorsi di continuità tra I dialoghi con Leucò e la precedente produzione (Solfanelli), rielaborazione della sua tesi magistrale.

Da cosa nasce, e quando, la tua passione per Pavese e su quali aspetti ti sei maggiormente concentrata? 

Il mio interesse per Pavese nasce dalle poesie. Lavorare stanca è stata una delle letture che più mi hanno segnata. Nello specifico, sono molto affezionata a quei testi che precedono Lavorare stanca e che fanno parte delle sezioni Sfoghi e Rinascita. Pavese è sempre stato estremo nella sua fragilità, nel dolore, nella delicatezza e questo mi ha attratto a lui come una calamita. Indubbiamente si tratta di un autore che prima ho riconosciuto e sentito a livello emotivo, e che solo dopo ho studiato e capito con la critica e la teoria. Entrando negli aspetti più tecnici mi sono resa conto di quanto fosse di difficile esegesi, stratificato nel simbolo e nell’ossessivo labor limae. E ho finito per scrivere la mia tesi magistrale sul suo testo più oscuro e simbolico, I dialoghi con Leucò, una delle opere che maggiormente sfuggono a qualsiasi tentativo definitorio.

La nostra rubrica ha ospitato due studiose che lavorano in Francia proprio sui Dialoghi, ovvero Daniela Vitagliano e Marie Fabre. Dalla tua prospettiva, come vedi oggi la ricezione di Pavese in Francia, a livello accademico ma anche editoriale?

Nel mio periodo di ricerca a Parigi ho avuto modo di incontrare Jean-Charles Vegliante, poeta, professore e traduttore di Pavese in Francia. Da un punto di vista accademico so che nei corsi di Études italiennes viene considerato come un autore canonico, e dunque viene fatto studiare più di quanto non lo si faccia in Italia nella scuola superiore e nei corsi universitari. Per quanto riguarda la diffusione editoriale, è Gallimard ad averlo pubblicato, dunque la casa editrice più importante di Francia. Anche se, per esperienza personale delle librerie francesi, non tutti i testi di Pavese sono così facilmente reperibili.

Da cosa nasce il tuo saggio Un “Pavese solo”. Percorsi di continuità tra I dialoghi con Leucò e la precedente produzione?

Questo libro nasce come rielaborazione e ampliamento della mia tesi magistrale. Si divide in due sezioni in cui ogni capitolo della prima parte si riflette in uno della seconda (i percorsi di continuità a cui allude il titolo). Nella prima sezione analizzo tutti quegli aspetti tematici, stilistici e poetici presenti nelle opere precedenti ai Dialoghi e che ritroveremo rielaborati e ampliati in questi ultimi. Nella seconda, cerco di mettere in mostra proprio come I dialoghi con Leucò siano il risultato di una poetica in fieri che nasce già dalle prime poesie giovanili, e non un unicum della produzione pavesiana, come invece molti critici sono stati portati a credere.

Il termine “solo” nel titolo del tuo libro sottolinea come tutta la produzione pavesiana sia accomunata da un’unica poetica, che confluisce nei Dialoghi (tesi illustrata da Alberto Comparini nel suo libro La poetica dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese). Su quali elementi hai basato la tua conclusione? E come si evidenzia questa continuità nell’opera di Pavese?

L’espressione “Un Pavese solo” è di Calvino, uno dei primi lettori e commentatori dei Dialoghi, nonché uno dei pochi che fin da subito aveva intuito la vera natura di quest’opera. Il senso del titolo allude quindi al filone critico che vede in Pavese un’unica poetica evolutasi nel corso del tempo. Nel mio saggio ho provato a dimostrarlo, come spiegavo prima, creando delle linee di continuità tra i Dialoghi stessi e le opere precedenti. In un capitolo, ad esempio, analizzo la presenza di oggetti liminali in Lavorare stanca e in alcuni racconti, a testimonianza di una tensione all’altrove e al simbolo che precede la risoluzione mitica degli anni ’40. E, ancora, seguendo gli approfonditi studi di Bart Van den Bossche, ho rilevato delle “strategie di dilatazione spazio-temporale” e di mitizzazione dei personaggi (come il cugino della poesia I mari del Sud, che apre Lavorare stanca) che attestano la presenza del mito già prima dei Dialoghi.

Sembrerebbe insomma che, come lui stesso aveva scritto, anche la critica stia realizzando che i Dialoghi sono il libro più importante di Pavese. Pensi che sia così oppure che ci sia ancora strada da fare per comprendere appieno questo libro? 

Penso che i Dialoghi siano il testo in cui Pavese ha riposto i maggiori sforzi, e ha concentrato lì tutto il suo sapere prima di andarsene. Per tale ragione sono veramente il suo lascito ai posteri, il tragico testamento in cui dichiara di non poter più andare avanti, una volta appresa l’impossibilità di far rivivere il mito, l’infanzia, o anche solo il passato, se non con la reiterazione del racconto. Continuare a leggere i Dialoghi è, dunque, continuare a far vivere Pavese. Credo però che l’attenzione critica sia ancora poco rivolta a questo testo. Anche adesso che sono uscite molte ripubblicazioni delle opere di Pavese, data la liberazione dei diritti, l’attenzione “mediatica” si è concentrata, ancora una volta, sui testi già noti. Di studi accademici rilevanti, poi, ce ne sono davvero pochi e dunque invito a continuare a studiare i Dialoghi. Detto questo, resto profondamente convinta che il testo non verrà mai spiegato fino in fondo, ma conserverà sempre una consistente aurea di mistero. 

“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da un famoso passaggio de La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Settantatré anni dopo il suicidio di Pavese, secondo te abbiamo ancora bisogno di lui? Come uomo o come intellettuale? Perché?

Il ritratto più bello dell’uomo Pavese lo ha fatto Natalia Ginzburg in “Ritratto di un amico”, nel suo libro Le piccole virtù. Riporto le sue parole: «Non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava; nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell’esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti. Gli restava dunque da conquistare la realtà quotidiana». Avremo sempre bisogno dell’uomo Pavese perché pochi come lui hanno il coraggio di non piegarsi al corso quotidiano dell’esistenza, ma si immolano per tutti gli altri a costo della vita stessa. Si immolano per vedere una verità atroce, troppo dolorosa per tornare indietro. E poi, credo ci sia sempre bisogno di versi che con delicatezza sappiano dire cose definitive. Come intellettuale ha dato tantissimo, portando in Italia autori fondamentali come gli americani o introducendo a quelle discipline etno-antropologiche che senza di lui sarebbero arrivate molto dopo. Il debito è grande. Inoltre, incarna uno di quei grandi intellettuali-editori che, se pur in un contesto totalmente diverso da allora, farebbero bene ad una società come la nostra votata ormai irreparabilmente solo all’imprenditore-editore.

Intervista a cura di Iuri Moscardi
 
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Dialoghi con Pavese

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