Per la nostra rubrica di critica pavesiana contemporanea, Iuri Moscardi ha intervistato il professor Enrico Terrinoni, che nel 2018 ha tradotto l’Antologia di Spoon River per Feltrinelli.
Enrico Terrinoni è professore di letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia e professore distaccato per il triennio 2022-2025 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, Centro interdisciplinare Beniamino Segre. Dopo la laurea in lingue a Roma Tre, si è addottorato in Anglo-Irish Literature and Drama all’University College Dublin ed è stato Visiting Professor alla University of Notre Dame e alla National Taiwan Normal University. Ha tradotto e curato quasi tutte le opere di Joyce in italiano, tra cui la prima edizione bilingue annotata al mondo di Ulisse (2021), oltre ad autori irlandesi, inglesi, scozzesi e americani (tra cui Oscar Wilde, Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, Alasdair Gray, G. B. Shaw, George Orwell, Edgar Lee Masters Bobby Sands). Nel 2018 ha tradotto per Feltrinelli l’Antologia di Spoon River.
Nell’introduzione alla tua traduzione analizzi il percorso di Masters come poeta, diviso a metà tra modernismo e nostalgia delle origini letterarie e nazionali. Da studioso e italiano, come ti spieghi l’enorme successo che questo libro – uscito ormai 110 anni fa – continua a esercitare sui lettori italiani? È stato tutto un malinteso fin dall’inizio (Pivano lesse in quelle poesie un richiamo alla libertà tarpata dal fascismo e Julianne VanWagenen è andata oltre) o c’è altro?
Non parlerei di malinteso. È stata da un lato, da parte di Pivano, la scoperta di un’America differente, che parlava al passato più che al futuro, ma non in maniera trionfalistica e banale come avveniva nel Ventennio fascista. L’Antologia di Spoon River trattava il passato senza trasformarlo in mito spicciolo e semplificatorio: guardava alle storie minime, e lo faceva a seguito di un’intuizione geniale, ossia che i morti sanno parlare. Il dialogo tra i vivi e i morti è da sempre un topos letterario, ma Edgar Lee Masters lo rende vivo e contemporaneo perché nella sua opera i morti insegnano ai vivi a vivere. Non parlano per vendicarsi, ma per indicare una via. Detto questo, il successo dell’opera in Italia non ha riscontri veri in America dove l’Antologia fa parte del genere che chiamiamo “Americana” e nessuno si sognerebbe di considerarlo rappresentativo della letteratura d’America nel Novecento o anche solamente un classico. Nelle antologie e nelle storie letterarie non figura quasi mai, se non di passaggio. Basta d’altro canto andare nei luoghi di Spoon River per capirlo. La casa dell’autore, a Lewistown, è in rovina, e dei due cimiteri a cui si è ispirato, soltanto uno mostra una qualche attenzione e cura da parte delle autorità municipali. Questa opera funeraria, però, in Italia è riuscita a risvegliare sentimenti a cui non si dava voce in quel periodo, e forse neanche adesso. Da noi la morte resta in gran parte un tabù, e credo che questo abbia contribuito a rendere dirompente l’effetto dell’Antologia nell’Italia di allora e in certa misura anche in quella di oggi, viste le tante traduzioni che l’opera ha avuto.
Sempre nell’introduzione scrivi che la traduzione “opera cambiamenti di forma, anelando a preservare e a comunicare lo spirito. Perché il traduttore è prima di tutto un interprete”. Come ti è venuta l’idea di tradurre questo libro? Ti sei ispirato o fatto guidare dalle traduzioni precedenti? E se sì, quali?
È stato un po’ il coronamento di un sogno. Lessi l’opera al liceo e mi piacque molto l’idea che i morti avessero ancora qualcosa da dirci, e che sapessero farlo in poesia e nelle forme del verso libero. Mi era rimasta, però, una sensazione di insoddisfazione, perché quelli erano i tempi in cui iniziavo a leggere in inglese e mi cimentavo con le prime traduzioni, in maniera amatoriale. La traduzione italiana mi suonava antiquata, e per certi versi nobilitante rispetto all’inglese molto piano dell’originale. Ne tradussi allora alcune poesie, e poi scoprii le versioni di De André. Ricordo che mi chiesi se si potessero considerare traduzioni, quelle del cantautore, e se un traduttore potesse usare il testo a quel modo, per renderlo ancor più bello di quanto non fosse prima. Col tempo capii che erano operazioni diverse, che De André si era soltanto ispirato all’Antologia, ma chissà se lo fece perché mettere in musica la traduzione pionieristica, ma vecchia, di Pivano, era impossibile. Insomma, rimasi con questo desiderio di farla anche io una traduzione, e a un certo punto la proposi a Feltrinelli. Ricordo che quando vinse il Von Rezzori, gli organizzatori del premio chiesero a Fabrizio Gifuni di leggere tante poesie da me tradotte in un teatro a Firenze. Lo spettacolo durò più di un’ora e nel sentirlo recitare mi resi conto che, alla sua lettura, ossia a quella di uno dei più grandi attori che abbiamo, le mie rese funzionavano. È stato per me uno dei rari momenti di felicità, in quanto traduttore e ricreatore.
Concludi l’introduzione scrivendo che “È un’America troppo piccola, quella di Masters, per essere davvero grande, ed è forse per questo che la sua vitalità sa ancora trascenderne i confini e arrivare fino a noi”. Ci sono particolari elementi del testo (stile o contenuto) che continuano a giustificare il fascino del libro su lettori e lettrici italiani e italiane?
Gli editori in generale pubblicano nuove edizioni dei classici per il semplice motivo che queste continuano a essere acquistate, e poi non tutti i lettori badano a chi ha tradotto cosa. È capitato con tante altre opere che ho fatto, il Dorian Gray di Wilde, ad esempio. C’è sempre qualche lettore che entra in libreria a cercarne una copia, e non è che deve per forza prendere la mia, anche se la copertina è assai accattivante. È quindi più una questione del rapporto domanda-offerta, e spesso non ha spiegazioni trascendentali il fatto che i classici si ritraducano. L’Antologia è entrata di peso nel nostro immaginario da decenni, se ne parla spesso, sui giornali, anche nelle scuole, e in radio passano tuttora le canzoni di De André. Questo basta a rendere sempre viva e vitale questa opera mortuaria. Per quel che mi riguarda, ho sempre detto che è un’opera diseguale. Ci sono poesie bellissime e poesie non così belle: sicuramente queste seconde superano per numero le prime, ma non conta. Quel che conta è l’effetto generale, l’idea di fondo. Non a caso l’autore agli inizi voleva scrivere un romanzo, a partire da quell’idea. Poi decise di pubblicare ogni tanto una poesia che raccontasse una storia di qualche morto dei dintorni, e queste poesie avevano successo perché spesso la gente riconosceva di chi si stava parlando. Noi non li riconosciamo più i referenti, ed è per questo che trovo preziose le traduzioni con le note biografiche dei personaggi: come la mia, ma anche come quella ultima del Saggiatore, un’opera magistrale.
Una particolarità dell’Antologia è che la sua forma testuale in italiano ha subìto continui cambiamenti: la prima edizione fu una scelta di alcune poesie, poi i traduttori hanno modificato la forma delle poesie o la struttura del volume. Qual è stato il tuo approccio alla struttura macrotestuale? Non temi che i criteri su cui ti sei basato (esclusione di Spooniade e Epilogo ma inserimento di poesie provenienti da altre raccolte) possano esserti contestati perché troppo poco filologici?
Non parlerei di scelte filologiche. Come ho detto, l’opera nasce come pubblicazione seriale, e poi le poesie furono raccolte, in due edizioni di cui a circolare di più è la seconda. Quindi, come curatore mi sono sentito relativamente libero di assecondare questa fluidità genetica, diciamo così, anche perché le tante edizioni in commercio hanno sempre incluso anche quei due testi abbastanza inutili, la Spooniade e l’Epilogo, che per me sono dei riempitivi e delle cadute di stile rispetto allo spirito del resto. La mia edizione è, credo e spero, in linea con lo spirito originale, di quando le poesie uscivano una ogni tanto. Tiene anche conto del fatto che non parliamo di un Wordsworth o di un Coleridge ma di un avvocato che ha scritto tantissimi volumi di poesia (quasi mai in verso libero), volumi dimenticati e consegnati all’oblio, perlopiù. Un avvocato-poeta che talvolta sbaglia. Allora, per compensare la perdita di quei due testi la cui inclusione è, secondo me, una vera e propria ingenuità dell’autore, ho inserito in appendice tante altre sue poesie, non della raccolta, ma legate a temi e luoghi affini a quelli di Spoon River.
Come giudichi gli sforzi di Pavese e Pivano a livello di resa di contenuto e di stile, a distanza di ottant’anni?
Pavese non fu solo un revisore in termini di contenuti, ma lavorò alla modifica strutturale e stilistica del testo, per rendere le traduzioni delle vere e proprie poesie. È come se dovesse sopperire a una qualche mancanza della traduzione iniziale in termini soprattutto di stile. E infatti, devo dire che forse anche per questo, in generale, le traduzioni di Pavese, per qualche motivo mistico, invecchiano assai meglio di quelle di Pivano. Il suo Dedalus di Joyce, ad esempio, nonostante gli anni e le sviste inevitabili, perché di Joyce sapeva quel che sapeva, è ancora leggibilissimo. Pivano è invece in generale per me una traduttrice meno creativa e più legata a un’idea di letteralità del testo. Sto generalizzando, ovviamente, bisognerebbe considerare le singole opere, perché ogni traduttore, me incluso, ha i suoi alti e i suoi bassi. Credo che lei, però, abbia avuto un ruolo assai più importante in quanto ponte culturale. Aveva rapporti di amicizia con scrittori americani e riusciva a creare contatti utili per far conoscere un mondo ignoto a quasi tutti gli italiani. In più, credo avesse anche un gran fiuto quando si trattava di individuare figure, in Italia, capaci di entrare nelle dinamiche della sua operazione culturale. Dei due, però, il poeta era Pavese, e su questo non ci piove.
“Un Pavese ci vuole”: ho usato questa semi-citazione da La luna e i falò per una serie di video-interviste con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo. Quasi settantacinque anni dopo il suicidio di Pavese, secondo te abbiamo ancora bisogno di lui come uomo o come intellettuale? Perché?
Indubbiamente. Parliamo di un intellettuale a tutto tondo, di uno scrittore libero e di enorme spessore, in grado di cambiare la vita dei lettori con le sue opere. Pavese è uno dei grandi della letteratura mondiale. Inoltre, in Italia ha anche giocato, un po’ come Calvino, un ruolo editoriale importantissimo. Anche oggi abbiamo editor/scrittori di grande valore. Mi sento però di dire che la mancanza di figure culturali come quella di Pavese si sente eccome, soprattutto in un momento storico come il nostro in cui viene a scemare un’idea di letteratura totale, relativamente libera dalle storture e imposizioni del mercato; anzi, capace di indirizzarlo, il mercato. Oggi è più difficile individuare scrittori che sappiano liberarsi dal giogo di dinamiche culturali che hanno sempre più una matrice commerciale. Pavese era, come Bianciardi credo, un lavoratore della cultura, un operaio-poeta della parola da un certo punto di vista. O almeno io, nel mio immaginario, l’ho sempre idealizzato così.
Intervista a cura di Iuri Moscardi

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